Il monaco studita San Simeone il Nuovo Teologo e alcune sue notazioni per quanto riguarda la vita monastica
Analisi teologico-spirituale dell’insegnamento pratico simeoniano ai suoi monaci sulla base delle Catechesi 30 e 31
Metropolita Jonáš (Jozef Maxim)
Pontificio Istituto Orientale
Facoltà di Scienze Ecclesiastiche Orientali
Dissertatio ad Doctoratum in Theologia, Roma 2017
Moderator: Prof. Germano Marani
Capitolo II. La visione simeoniana della vita monastica
1. Le caratteristiche interiori di un monaco
1.1. La definizione del monaco
1.1.1. Il Monaco
1.1.2. L’insensibilità del monaco
1.1.3. Il mondo
1.2. L’elemento cristocentrico
1.2.1. La carità (ἀγάπη)
1.3. L’elemento pneumatologico
1.3.1. La penitenza – dono dello Spirito
1.4. L’elemento escatologico
1.4.1. La preghiera
1.5. La visione interiore di Dio
1.5.1. La luce
Capitolo II. La visione simeoniana della vita monastica
San Teodoro Studita[1], igumeno del monastero Stoudios[2] a Costantinopoli, dove ha cominciato la riforma della vita cenobitica seguendo le linee principali dell’ideale cenobitico di San Basilio[3] e non solo, insieme con gli altri monasteri di tutto il movimento del monachesimo studita, sia di Costantinopoli, come anche di tutto l’Impero Bizantino che hanno accettato la riforma introdotta da San Teodoro, cominciando dalla fine dell’ottavo secolo[4], ebbero un grandissimo influsso sul monachesimo bizantino in genere, sulla chiesa, come anche sull’Impero Bizantino.
Anche la vita del nostro autore San Simeone il Nuovo Teologo era sotto influsso del monachesimo studita: egli due volte[5] provò di entrare e diventare monaco nello Stoudios, il suo padre spirituale era San Simeone lo Studita[6], monaco di Stoudios e, il monastero di San Mama[7] di Xylokerkos[8], dove San Simeone è diventato monaco e in seguito igumeno, era monastero studita.
1. Le caratteristiche interiori di un monaco
1.1. La definizione del monaco
San Simeone, in effetti, ha impiantato nel cuore del monachesimo studita una spiritualità tutta «pneumatica» e «cristica»[9]. Sullo sfondo di questa spiritualità a lui propria, anche la concezione del monaco[10] e del monachesimo assume una certa caratteristica per lui tipica di cui vedremo alcuni aspetti.
1.1.1. Il Monaco
Simeone nel suo terzo Inno descrive il monaco e la sua attività. E’ una definizione spirituale, che si basa sull’attività interiore del monaco.
Le moine (ὁ μοναχὸς) est celui qui est pur du monde (ὅστις ἀμιγής ἐστι κόσμῳ) et s’entretient continuellement (ἀεννάως) avec Dieu seul (Θεῷ μόνῳ) ; il le voit (βλέπων) et en est vu (βλέπεται), l’aime (φιλῶν) et en est aimé (φιλεῖται), et devient lumière (φῶς), parce qu’éclairé de manière ineffable ; glorifié (δοξαζόμενος), il se voit toujours plus pauvre (πτωχεύειν) : intime (προσοικειούμενος), il est comme un étranger (ξένος) – ô merveille totalement étrange et inexprimable ![11]
Dal punto di vista negativo risulta che la persona che si chiama monaco vivendo nel mondo[12], rimane puro senza essere mischiato (ἀμιγής) con il mondo, cioè egli è estraneo al mondo pur vivendo nello stesso mondo. Questa è la condizione base e la ragione è semplice.
Nella vita ascetica del monaco, il mondo è restaurato alla bellezza originale. La vita spirituale non è separata dal resto della vita, come il cibo materiale non è separato da quello spirituale. Il monastero come luogo fisico in cui abitano i monaci tende ad essere il luogo dell’unità e della congiunzione fra spirituale e materiale[13] anche se c’è il rischio che il monastero diventi un posto in cui vivono persone isolate da Dio e da se stessi fra di loro. Simeone spiega ciò dicendo che uno «è solo (μόνος) in quanto separato da Dio (τοῦ Θεοῦ κεχωρισμένος)» e, dunque, ciascuno di queste persone «è totalmente separato da tutti gli altri uomini»; allora può succedere che in un monastero, invece di una comunità di persone vive, di monaci, possano vivere «degli orfani isolati (ὀρφανοὶ μεμονωμένοι)»[14]. E’ solo, in senso negativo, cioè che vive isolato dagli altri e conseguentemente anche da Dio stesso, colui che vive senza Cristo, perché vive senza Dio.
Dal punto di vista più propositivo, Simeone si concentra di più e descrive l’azione, il movimento interno che dovrebbe riempire il monaco e che lo caratterizza e dal quale il monaco prende il nome. In altre parole la persona che si chiama monaco cerca di mantenersi in unione in modo continuo senza sosta né interruzione (ἀεννάως), eternamente con Dio solo (Θεῷ μόνῳ), nel senso di una dinamica considerata dal punto di vista dell’eternità. L’accento è posto non tanto sull’azione negativa quanto sull’azione positiva del monaco che non deve astenersi dal mondo ma piuttosto unirsi con Dio[15], perché è l’unione con Dio che dà una veritiera caratteristica al monaco.
Non è solo (μόνος)[16] colui che è unito a Dio (ὡ Θεῷ ἑνωθείς), anche se vive da solo (μονάζῃ), anche se risiede in un deserto (ἐν ἐρῆμῳ κάθηται), anche se si trova in una spelonca (ἐν σπηλαίῳ ἔστιν). Se però egli non ha trovato (εὕρηκεν) questo Dio-Verbo incarnato, se non lo ha conosciuto (ἔγνω), se non lo ha preso tutt’intero (ἔλαβεν ὅλον), ahimè non è per nulla diventato un monaco (οὐ γέγονε μοναχός).[17]
Questo unirsi con Dio evidenzia l’integrità interna del monaco e gli dà la possibilità di mantenersi puro (ἀμιγής), senza essere macchiato dal mondo poiché il monaco vede (βλέπων) Dio ed è veduto (βλέπεται) da Dio stesso. Da ciò scaturisce un’azione interattiva fra Dio e il monaco e viceversa e questa consapevolezza profondamente formativa nel pensiero di Simeone ha un ruolo assai importante.
L’unione con Dio rende il monaco partecipe a tutta la famiglia e la comunità dei santi. «In quanto ti sei unito (ἑνωθείς) a Dio e al re, tu non vivi da solo (οὐ μονάζων), ma sei diventato collega (γέγονας συναρίθμιος) di tutti i santi, condividi il tenore di vita degli angeli, abiti insieme ai giusti e sei realmente coerede di tutti quelli che sono in cielo.»[18] San Simeone enumera i martiri e i santi, i profeti e i divini apostoli, i giusti, i dignitari sacerdotali, i patriarchi e tutti gli altri santi ai quali ci si unisce in una comunità.
Il monaco è colui che ama (φιλῶν) Dio ed è amato (φιλεῖται) da Dio: è interessante notare che Simeone per esprimere l’amore del monaco verso Dio e l’amore di Dio verso il monaco usa la parola greca φιλεῖν, che generalmente parlando, esprime una relazione affettuosa[19] anche se, nel NT (cf. Gv 21, 17) e nella letteratura patristica[20] stesso verbo viene usato per esprimere sia l’amore dell’uomo verso Dio, sia l’amore di Dio verso l’uomo.
Un’altra caratteristica del monaco è la luce. Cioè il monaco diventa luce (φῶς): diventare luce per il monaco è collegato con l’amore; la luce, cioè, esprime la dinamica spirituale dell’amore. Tanto quanto il monaco si unisce con la sorgente della luce ineffabile, con Dio stesso, anch’egli diventa la luce.
Sono le virtù che aiutano a svelare la presenza di Dio e ad unirsi con Lui attraverso l’amore.
Chi invece, mediante la virtù, ha fatto della sua cella (τὴν κέλλαν)[21] un cielo, si rende conto che in essa risiede il Creatore del cielo e della terra, lo vede (βλέπει), lo adora (προσκυνεῖ), e sta sempre insieme (σύνεστιν) a una luce intramontabile (φωτὶ ἀδύτῳ), a una luce senza sera (φωτὶ τῷ ἐνεσπέρῳ), a una luce inaccessibile (φωτὶ τῷ ἀπροσίτῳ);[22]
e la luce di Dio sta con lui in ogni momento della vita quotidiana e anche dopo la morte, eternamente.
Esercitare le virtù per mezzo della penitenza (διὰ μετανοίας), già in questo mondo, aiuta la persona del monaco a purificare l’anima e così diventare uno (μοναχοί) con Dio, ad unirsi con Dio, a rafforzare il legame interno con Dio e, dall’altra parte, ne risulta un certo distacco dagli altri uomini. Il monaco così ottiene «la mente di Cristo (νοῦν Χριστοῦ) e cioè una bocca e una lingua veritiere e con esse conversa col Padre»[23], lo glorifica ed è glorificato da Lui.
Essere glorificato (δοξαζόμενος), in questo caso di nuovo non è una realtà esteriore ma piuttosto interiore. Una delle caratteristiche del monaco portate da Simeone nell’Inno terzo è la gloria interna, che fa partecipare alla vita di Dio, che collega la persona del monaco a Dio, e così Dio per il monaco diventa quella forza centrale attorno alla quale si accumula e dalla quale cresce la vera gloria per il monaco. Per questo motivo, il monaco esternamente è come se fosse un mendicante, cioè veramente povero, non legato alle cose esterne.
L’ultima caratteristica che Simeone espone nel terzo Inno è l’intimità del monaco, cioè la capacità di essere concentrato in se stesso (προσοικειούμενος) o, in altre parole essere concentrato in modo tale da appropriarsi se stesso, di associarsi con se stesso cioè con il nucleo vitale che descrive l’uomo e senza il quale non si può parlare di un uomo; allo stesso tempo, però, come vero cristiano, si tiene straniero (ξένος), cioè separato dal mondo nel quale vive.
Nella seconda parte della definizione stessa si può cogliere il senso profondo di che cosa significhi essere monaco. Il vero senso va oltre la frontiera che si può percepire con i sensi esteriori umani e lo si esprime con domande alle quali si cercano risposte. Dice: «“Chi mi darà”, ciò che io ho in ricca quantità, e “Dove troverò”, colui che vedo ogni giorno; “Come mi impadronirò” di ciò che è dentro di me e fuori dal mondo, poiché non lo si può assolutamente vedere?»[24] Si percepisce che le domande danno un’indicazione verso l’Ineffabile che abita nel cuore umano e proprio nel mistero di questa partecipazione a Lui, alla Sua vita dentro l’uomo si nasconde il vero senso di essere monaco.
Allora, essere monaco è un processo senza fine di sforzi instancabili di cercare, di scoprire, di comunicarsi, di appropriarsi, di unirsi con l’Invisibile.
Simeone chiama i monaci «servitori di Dio (τῷ Θεῷ δουλεύοντες)», e spiega ciò. I monaci sono quelli che:
lo hanno cercato, solo (μόνον), al posto di tutto e lo hanno trovato, lui solo (μόνον), e lo hanno amato, lui solo (μόνον), e a lui solo (μόνῳ) si sono uniti (ἑνωθέντες) e sono diventati monaci (μοναχοί), perché sono soli con lui solo (ὡς μετὰ μόνου μόνοι), anche se sono annessi a una grande massa di gente. Sono, infatti realmente monaci (μοναχοί) e dediti alla vita solitaria (μονάζοντες μόνοι) solamente quelli che sono soli con Dio (μετά μόνου τοῦ Θεοῦ) e in Dio solo (ἐν Θεῷ δὲ μόνοι), spogli di ogni riflessione e ragionamento di qualsiasi genere, vedendo soltanto Dio in una mente senza preoccupazioni, conficcata nella luce.[25]
Monaco è colui che ha messo Dio al posto di tutto e di tutti. Soltanto Dio è tutto per lui. Il monaco non soltanto vive con Dio, ma cerca di stare unicamente con Lui, e cerca soltanto Lui. Per questa ragione si può chiamare anche solitario, non a causa della solitudine esteriore, ma a motivo dell’eccezionalità con la quale cerca Dio. Vediamo che Simeone non si limita ad una descrizione esteriore del monaco; egli si concentra sul processo interiore che dà alla parola monaco (ὁ μοναχός) una caratteristica con dinamica interiore da lui sottolineata.
Per rilevare il fatto di vivere per Dio e secondo Dio, che è una delle caratteristiche fondamentali interiori di un monaco, come spiegato in precedenza, Simeone non ha paura di mettere sulla stessa linea tutte le forme esteriori del monachesimo tradizionale, cioè la vita cenobitica e eremitica, insieme con le attività che sono caratteristiche piuttosto dei laici quali, per esempio: governare, educare, insegnare, fondare le chiese, svolgere le varie attività che procurano alla gente cibo materiale e spirituale.
Beaucoup canonisent la vie érémitique (ἐρεμικόν)[26], d’autres la vie en commun ou cénobitique (κοινοβιακόν)[27], d’autres le gouvernement, l’éducation, l’enseignement, la fondation des églises, œuvres qui procurent à diverses gens la nourriture du corps et de l’âme. Pour moi, je n’oserais me prononcer en faveur d’aucun de ces états ni exalter un genre de vie et déprécier l’autre; en tout cas, quelles que soient les œuvres et les pratiques, c’est la vie (ὁ βίος) pour Dieu (διὰ Θεόν) et selon Dieu (κατὰ Θεόν) qui est toute bienheureuse.[28]
Notiamo che egli non indica preferenze per nessuna delle due espressioni della vita monastica di allora anzi le mette a pari con le altre attività della gente che vive nel mondo e questo con l’unico scopo di affermare ciò di cui è persuaso vale a dire che l’unica cosa importante è vivere per Dio e secondo Dio, e questo vale per tutti.
Come nella vita umana ognuno esercita la propria attività, porta il proprio contributo e si sforza di soddisfare le proprie necessità e le necessita della società, così è nella vita spirituale per quelli che praticano le virtù nei vari campi della vita: tutti tendono ad una unica mèta. Lo scopo di quelli che lottano secondo Dio è «de plaire au Christ Dieu, d’être réconciliés (μετουσίας) avec le Père, par la présence de l’Esprit et d’atteindre ainsi leur salut (σωτηρίαν) ; en cela en effet consiste le salut de toute âme et de tout homme»[29]; noi possiamo soltanto aggiungere che appartengono a questi anche i monaci che hanno le stesse mete.
Torniamo di nuovo alla nostra definizione iniziale del monaco. Abbiamo visto che Simeone mette in relazione l’essere del mondo e vivere per Dio e lo conferma ancora una volta nei suoi Capitoli ponendo l’accento sul fatto che ciò che dà il senso alla attività esteriore, nel nostro caso anche all’attività monastica qualunque essa sia, è proprio l’intensità della relazione interiore con Dio. «Si ce but n’est pas atteint, notre effort est vain (κενός), et stérile (ματαία) notre activité, et sans profit encore tout chemin dans la vie qui ne porterait pas vers cette fin celui qui s’y élance.»[30]
Parlando della relazione fra l’attività esteriore e quella interiore del monaco, vi è una testimonianza dalla visione stessa di Simeone. Il Signore stesso in essa esprime quello che si aspetta da parte dei monaci nella loro vita:
Voi monaci (μοναζόντων), che sembrate zelanti, formatevi nel vostro interno con la pietà (τῇ εὐσεβείᾳ), allora per me l’esterno (τὸ ἐκτός) sarà senz’altro puro e diventerà utile per voi e per quelli che vedono le vostre opere buone; ma io, Creatore […], desidero l’interno […]. Se però voi ornate la linea esterna […], e non tenete in nessuna considerazione l’immagine (τῆς εἰκόνος)[31] che mi è cara, per purificarla e adornarla per vostro impegno, con le vostre lacrime, coi vostri travagli […], mi sembrate dei sepolcri pieni di putrefazione.[32]
Risulta, quindi, che il monaco è colui che ha una appropriata, buona e sana relazione con il mondo e con il Dio in un equilibrio coordinato dalla sensibilità o dall’insensibilità a seconda da quale punto di vista si parli.
1.1.2. L’insensibilità del monaco
Per quanto riguarda l’insensibilità[33], negli scritti del Simeone possiamo trovare il senso di questa parola che è nella linea dei Padri. Simeone ne parla praticamente in tre contesti.
Il primo, nella dimensione monastica, l’insensibilità (ἀναισθησία) è raramente considerata come una disposizione favorevole. Ed è così nel pensiero di Simeone, perché secondo la teologia simeoniana la grazia viene percepita in modo sensibile e, dunque, l’insensibilità in questo contesto non è desiderata[34] anche perché essere insensibile (ἀναίσθητος) specialmente alla grazia e allo Spirito Santo, testimonia morte spirituale[35]. Nella relazione verso l’Uno, l’insensibilità crea tanti danni perché rinchiude anche la capacità di essere sensibile (αἰσθητός) verso tutto[36]. Allora, nell’ambito della definizione del monaco, essere libero dall’insensibilità per l’uomo come tale e per il monaco, secondo i Padri è molto importante: anche Simeone tratta così l’argomento.
Il secondo è il contesto apofatico della teologia[37] e, infatti, l’insensibilità permette di esprimere una certa incapacità di percepire per esempio la gloria di Dio[38].
Infine c’è il contesto che ci interessa maggiormente poiché indica l’insensibilità come una delle caratteristiche del monaco in senso positivo: si tratta, qui, di un aspetto positivo dell’insensibilità poiché indica un’insensibilità verso ciò che distrae dalla meta principale, dalla unione con Dio, soprattutto, quando si tratta delle relazioni dei monaci con il mondo e in questo caso con le persone del mondo.
Allora secondo Simeone coloro che esercitano l’ascesi nel monastero, cioè i monaci «doivent rester comme des morts devant des morts, sans rien éprouver consciemment (ἀνεπαισθήτως […] αἰσθήσει) à leur égard : (ainsi) deviennent-ils, pour de bon, des agneaux, victimes volontaires.»[39] Egli dice ciò nel contesto del martirio volontario fatto da parte dei monaci. Proprio qui avviene l’insensibilità del monaco verso gli influssi negativi del mondo che guidavano la persona prima che si allontanasse dal mondo.
Oppure, parlando in senso positivo, il monaco deve essere sensibile spiritualmente e per questo motivo in misura di essa, i sensi esteriori devono essere mortificati. Si parla del ζωοποιὸς νέκρωσις, la morte vivificante[40], data dallo Spirito anche prima della morte fisica, a chi lotta. Si arriva a non essere del mondo «crocifiggendo se stessi al mondo e il mondo a sé, come dice Paolo: “A me il mondo è crocifisso, e io al mondo”»[41]. Possono essere crocifisse al mondo e essere messe a morte soltanto le persone che «sono perfettamente unite a Dio» e «che possiedono in se stessi totalmente tutto Cristo», che è la Vita, e lo possiedono «nell’opera (ἔργῳ), nell’esperienza (πείρᾳ), nella conoscenza (αἰσθήσει), e nella contemplazione (γνώσει)» e «i sensi dei quali non percepiscono (αἴσθησις ἀναίσθητος) la sensazione di quest’aria, del mondo e delle realtà sensibili, la mente (διάνοια)dei quali non prova passione per ciò che è visibile»[42].
Simeone disegna qui il progresso della mortificazione vivificante, cominciando da una parte dal morire per il mondo e nello stesso tempo dall’altra dall’unione con Dio e dal possedere Cristo, cominciando dalle opere, continuando attraverso l’esperienza sperimentale e la conoscenza cognitiva fino alla contemplazione interiore. Questo processo per il monaco si comincia
quando noi usciamo dal mondo e mediante l’assimilazione ai patimenti del Signore entriamo nel sepolcro della penitenza e dell’umiltà (ἐν τῷ τῆς μετανοίας καὶ ταπεινώσεως μνήματι), egli stesso scende dai cieli, entra nel nostro corpo come in tomba, e unendosi alle anime nostre, che erano morte, manifestamente le fa risorgere. E concede allora a colui che, così è risorto insieme col Cristo di vedere la gloria della sua mistica risurrezione.[43]
La stessa insensibilità del monaco verso il mondo è descritta come «la morte prima della morte e la risurrezione dell’anima prima della risurrezione dei corpi», spiegando che il modo di pensare (φρόνησις) che è mortale (θνητός) viene, in questo processo interiore, eliminato dall’intelletto che è immortale (ὑπὸ τοῦ ἀθανάτου νοὸς ἐξαφανιζομένου). L’anima risuscitata (ἡ ψυχὴ τότε, ὡς ἐκ νεκρῶν ἀναστᾶσα), non fa altro che rende le grazie a Dio (ᾧ εὐχαριστοῦσα), lo adora (προσκυνεῖ) e lo glorifica (δοξολογεῖ), perché riconosce che Egli l’ha fatta. Il corpo è morto e senza nessun movimento, perché soffocato, per quanto riguarda i desideri corporali (ἐπιθυμίας). L’animatore par excellence di tutto questo è lo Spirito Vivificante.[44]
Lui riporta un’immagine negativa di un tale, che a nostro avviso era un caso della vita reale, che non ha ottenuto l’insensibilità positiva. Simeone parla di un uomo che si è allontanato dal mondo cercando la quiete (πρὸς ἡσυχίαν ἀναχωρήσας) ma che, però, ad un certo momento, dimentica il motivo del suo allontanamento dal mondo e comincia a tornare indietro con il proprio pensiero desiderando le cose che faceva prima rinnovando, cioè, le stesse relazioni sbagliate con il mondo che aveva lasciato. Quel tale
è simile ad un uomo sposato con una donna corrotta, trascurata e malvagia e che poi è fuggito lontano per dimenticarla. In seguito, dimenticando il motivo per qui si è ritirato sui monti viene preso dal desiderio di scrivere a coloro che, per così dire, si aggirano attorno a questa prostituta, che si insudiciano con lei e li benedice. Anche se il suo corpo è lontano, col cuore e con lo spirito avverte intensamente le medesime passioni di quelli uomini, perché approva il loro commercio con questa donna.[45]
Egli vede un grande pericolo poiché questo uomo, così facendo, rischia di permettere di esser abusato da se stesso ed essere simile a una prostituta a livello delle realtà spirituali.
Per questo motivo, secondo Simeone, è importante avere una giusta misura verso le due realtà che il monaco ha davanti a sé, cioè verso il mondo nel quale sta vivendo e verso il Creatore con il quale vuole ottenere l’unità. Come tenersi in questa giusta tensione interna egli lo descrive sottilmente nelle seguenti parole: «Tant que tu es en bas, ne recherche pas ce qui est en haut ; avant d’être élevé en haut, ne te mêle pas indiscrètement des choses d’en bas, pour ne pas glisser et perdre des deux côtés, ou plutôt être abandonné avec ce qui est en bas»[46]. Proprio la santità personale di un monaco è la precondizione essenziale per trovare un equilibrio nella relazione non consumistica ma ascetica, e dunque veritiera, verso le creature e verso Dio increato[47].
C’è ancora un altro pericolo che può portare all’indebolimento dell’insensibilità positiva ed è la gloria umana. Coloro che si sono allontanati e abitano nelle montagne e nelle grotte e nello stesso tempo aspirano agli applausi (τῶν ἐπαίνων), alle glorificazioni (τῶν μακαρισμῶν) e alla gloria umana (τῆς δόξης ἐφίενται τῶν ἀνθρώπων) sono da biasimare e disprezzare. La posizione di Simeone verso tali persone è molto forte e senza compromessi ed egli afferma che per Dio che conosce i nostri cuori, tali persone sono adulteri, che fanno tanto rumore nel mondo e si allontanano da Dio[48].
Risulta che per capire bene e per avere una buona e giusta immagine parlando del monaco, bisogna descrivere un po’ la sua relazione verso la realtà che nella tradizione dei Padri come anche da Simeone viene chiamata «mondo».
1.1.3. Il mondo
Allora Simeone per spiegare che cosa è «mondo» (ὁ κόσμος), prima decifra che cosa non lo è, per poter alla fine concentrarsi su quello che anche secondo la tradizione dei Padri[49] si capiva come «mondo».
Non l’oro, non l’argento, non i cavali o i muli: poiché tutte queste cose sono anche a nostro servizio, per le esigenze del corpo, anche noi le possediamo. Non la carne, non il pane, non il vino: poiché anche noi abbiamo parte a queste cose e ne mangiamo secondo il bisogno. Non le case, non i bagni, non i campi o le vigne o i poderi: poiché anche le laure e i monasteri sono composti di tali cose. Che cosa è dunque il mondo? Il peccato e l’attaccamento alle cose, fratelli e le passioni.[50]
Allora il mondo non sono i mezzi economici con i quali si compra, vende e guadagna, né i cibi che servono per tenere in vita nostro corpo, né le proprietà materiali nell’uso delle persone. Secondo il pensiero di Simeone, che è fedelmente tradizionale, il mondo si evoca con il peccato (ἡ ἁμαρτία), con l’attaccamento alle cose (ἡ πρὸς τὰ πράγματα σχέσις) e con le passioni (τὰ πάθη).
E’ proprio questo che il monaco deve lasciare e di cui non deve interessarsi poiché il problema sta nella relazione, nell’atteggiamento. Il monaco fa lo sforzo di allontanarsi e distaccarsi da queste realtà piuttosto in modo immateriale che materiale. Questa è la vera separazione dal «mondo»[51]: cioè lasciare «il mondo» e le cose del «mondo», però senza tenerle nella profondità dell’anima ma averne disgusto, abborrirle (βδελύσσομαι).
Diversamente c’è il pericolo di cadere nella malattia spirituale che si chiama l’ignoranza (ἄγνοια)[52], oppure la cecità degli occhi dell’anima (ἡ πήρωσις τῶν ὀφθαλμῶν τῆς ψυχῆς)[53]. Infatti questa ignoranza naturalmente fissata sugli occhi spirituali dell’anima come una scarica di vapore, è un risultato del nostro amore per il mondo e per le cose che sono nel mondo. Simeone ha il coraggio di chiamare ciò «perdizione». Se si cade in essa si è così attratti che non si è in grado neppure di prendere coscienza del fatto che uno si trova allora tra quelli che si perdono (ἐν τοῖς ἀπολλυμένοις ἐστίν), e giunge persino allo stato della dimenticanza dei comandamenti di Dio.[54]
Per questo motivo il processo del distacco del mondo non si ferma alla forma esterna ma piuttosto continua verso l’interno e si adempie nell’intima separazione del cuore dalle realtà che si chiamano mondane. Si tratta della totale mortificazione della propria volontà (τὴν παντελῆ τοῦ ἰδίου θελήματος ἀπονέκρωσιν). Simeone lo Studita, padre spirituale del nostro autore, dallo quale Simeone riprende la sopraddetta concezione[55], lo chiama perfetto allontanamento, distacco del mondo (ἀναχώρησιν τελείαν τοῦ κόσμου)[56].
Simeone afferma che poiché il monaco è uomo e vive sulla terra, è davvero impossibile per lui vivere solo, nell’isolamento, senza le cose indispensabili della vita e che fanno parte della vita. Afferma, che anche il monaco ha bisogno di mangiare, bere, vestirsi, usare gli strumenti di lavoro e, dunque, ovunque vada, incontri la gente, le donne, i giovani.
Perciò il semplice cambiamento di posto o il trasferirsi dal mondo a un posto isolato, come un monastero, una grotta, una montagna inaccessibile, risultano strumenti falsi e non idonei per sfuggire e liberarsi dal «mondo» e non portano al risultato desiderato.
L’éloignement (ἀναχώρησις), simple changement d’un lieu à un autre, n’est pas le véritable expatriement (ἡ ἀληθὴς ξενιτεία); […] Le premier convient à ceux qui luttent: ou bien la paresse et l’instabilité d’esprit les entraînent, ou bien un surcroît de ferveur, chez ceux qui désirent encore de meilleurs combats. L’autre appartient à ceux qui sont crucifiés au monde et aux affaires du monde et n’ont que l’ambition de vivre toujours avec Dieu seul et ses anges sans nul retour vers ce qui est humain.[57]
Allora l’allontanarsi dal «mondo», secondo Simeone, si compie in due fasi. La prima, l’ἀναχώρησις è legata al cambiamento fisico del luogo e caratterizzata dal combattimento, la lotta con ciò che nella concezione monacale è «mondo» e comporta una certa positiva instabilità dello spirito, cioè un essere «sopra e sotto». Essa si colloca piuttosto nella sfera terrestre, percepibile, sensuale, se così si può dire, del corpo e dell’anima.
Senza la lotta[58], senza fare un passaggio dal conservare all’astenersi dalla «concupiscenza (τὴν ἐπιθυμίαν) della carne e la concupiscenza degli occhi» come anche dalla «superbia dei pensieri[59] (τὴν ἀλαζονείαν τῶν λογισμῶν)»[60], da «qualsiasi cattiva concupiscenza (πᾶσαν ἐπιθυμίαν κακήν), contesa (πονηρίαν), gelosia (ἔριν)»[61], non è possibile vivere la vita buona del Vangelo tra gli affari, sollecitudini e le preoccupazioni della esistenza umana, poiché la meta è che si possa giungere e trascorrere la vita nella santità perfetta (ἐν ἁγιότητι τελείᾳ)[62], come hanno mostrato tanti santi.
Questa fase, perciò, non si limita tanto a un cambiamento esterno della forma di vita, non viene automaticamente dalla professione monastica ma si basa su quel distacco reale ed interno dal «mondo», nell’intimo della persona che ha deciso di vivere per Dio, e va di pari passo con l’osservanza dei comandamenti e la penitenza.
Gli affari quotidiani, l’uso quotidiano delle cose, i piccoli dettagli della vita di una comunità monastica, le relazioni interpersonali e così via[63], sono proprio il campo del combattimento, perché è proprio qui che si decide se uno decade dall’amore di Cristo e diventa suo nemico o viceversa.
Simeone avverte di ciò la sua fraternità monacale al modo direi tipico studita, alla maniera di Teodoro Studita[64], con un tono famigliare di Padre ai suoi figli spirituali. Vivendo egli stesso nella vita cenobitica e conoscendo la realtà monastica dal di dentro, tratta veramente delle cose pratiche sulle quali si inciampa di più soffermandosi a tanti dettagli delle varie faccende della vita monastica, per dimostrare come sono importanti e quale ruolo decisivo abbiano nella lotta spirituale.
Alla fine dello stesso discorso egli afferma che «non ci gioverà a nulla aver vinto le grandi passioni se ci lasciamo dominare dalle cose piccole»[65]. Perciò si deve essere attenti poiché l’allontanamento dal Signore può avvenire in modo molto sottile, senza che alcuno se ne accorga.
La seconda fase nel processo di allontanamento dal «mondo», cioè la ξενιτεία[66], è caratterizzata soprattutto dall’ambizione e dal desiderio di vivere continuamente solo con Dio. Per questo motivo il monaco dovrebbe essere come se fosse il passero solitario sul tetto oppure come il pellicano del deserto, mettendosi nella disposizione dell’anima estraneo a tutto ciò che si trova nel monastero (ξένον […] τῶν ἐν τῇ μονῇ)[67] così come anche nel mondo (ξένος τοῦ κόσμου)[68] però senza farsi prendere dall’essere privo di libertà interiore (ἀπαρρησίαστον) nei confronti delle persone.
I pensieri sui quali la vera xeniteia conduce ed aiuta a concentrare il nous e meditarvi sopra, sono quello della morte, del giudizio, del castigo ma con una dinamica positiva che in modo naturale serva all’anima come un aiuto per non separarsi da Dio. E poi l’assenza dell’arroganza è già uno dei segni della compunzione dell’anima, attraverso la quale come fuoco lo Spirito Santo, vivifica, illumina, abbraccia e riscalda il cuore e lo infiamma nell’amore e nel desiderio di Dio.[69]
S’intravede già una carica interna con un’attesa fortemente escatologica.
Abbiamo descritto la relazione del monaco con il mondo; ora proveremo a descrivere la relazione del monaco verso Dio e abbiamo suddiviso questa dimensione nelle tre parti che seguono.
1.2. L’elemento cristocentrico
Simeone amava Dio e il suo amore verso Dio lo conduceva non soltanto alla sua trasformazione personale ma anche alla continua ricerca per trasmetterla anche agli altri[70]. Voleva che anche i suoi confratelli scoprissero la verità della crescita interiore, che egli stesso sperimentava: cercare Cristo e continuamente crescere in Cristo era per Simeone il fatto da non trascurare.
La teologia di Simeone il Nuovo Teologo è caratterizzata da un forte cristocentrismo, perché il centro della sua esperienza è la divina persona di Cristo e la sua presenza[71]. Cristo era per Simeone veramente tutto[72]. Lo afferma la bellissima confessione che Simeone stesso pregando indirizza verso Cristo:
tu sai che io ho Te come vita, parola, conoscenza, sapienza, come Dio salvatore e protettore nella mia vita, respiro della mia povera anima […]. Tu sei la mia speranza, il mio sostegno, il mio riparo, il mio rifugio, il mio vanto, la mia ricchezza, la mia gloria. Tu Verbo, nella tua affettuosa benevolenza, hai voluto prendermi dal mondo.[73]
Nello stesso tempo, Simeone è cosciente che cercare Cristo è l’azione principale e caratteristica per lo stato monastico. Per questo motivo spesso torna a incoraggiare i suoi confratelli.
Cerchiamo dunque il Cristo, di cui siamo stati rivestiti nel divino battesimo, di cui però siamo stati spogliati a causa delle nostre azioni cattive […], sigillati da lui […], ma riceviamo anche, dalla sua mano, misericordia e possiamo essere fatti degni della conoscenza dei misteri del Cristo; non di quella conoscenza – dico – che è trasmessa soltanto mediante la parola (ἐν λόγῳ μόνῳ) e l’udito (ἀκοῇ), ma di quella che si vede nell’opera (ἔργῳ) e nella pratica (πράξει).[74]
Cristo è invisibile, però in qualche modo il monaco è chiamato a partecipare alla vita di Cristo. Si può fare ciò attraverso la conoscenza e l’ascolto della Parola nella quale Cristo è presente e che, nella vita del monaco, ha tanto posto negli uffici liturgici che di essa sono ripieni. Questo modo però non basta. Simeone sottolinea in modo speciale, in questo caso, la conoscenza che si può ottenere ed è presente nelle opere e nella pratica.
1.2.1. La carità (ἀγάπη)
Il modo, con il quale si è chiamati a partecipare alla vita di Cristo, come Simeone stesso spiega[75], è la triade delle virtù: la fede, la speranza e la carità, che egli chiama «città unica», «regno dei cieli», dove chi regna è Cristo. Questo è l’unico scopo verso il quale si parte da varie direzioni, da varie persone, si raggiunge con varie vie, ottenendo il regno dei cieli o, in altre parole, Cristo stesso.
La prima o anche l’ultima virtù della triade, e delle virtù cristocentriche è la carità (ἀγάπη)[76]. L’argomento della carità è per lui così forte, che praticamente, parlando proprio di questo argomento egli comincia il suo igumenato. Nella sua prima Catechesi ai monaci di San Mama, già nella qualità di igumeno scelto, proprio parlando della carità, all’istante è rapito in estasi[77]. Partecipare alla vita della carità è molto importante per Simeone, perché è la carità che è la chiave che porta verso Cristo e per mezzo della quale si entra nella gioia dei beni del nostro Signore.
beatissimo chi è amato da te, chi è accolto presso di te, chi è ammaestrato da te, chi ha preso dimora in te, chi per mezzo tuo (διὰ σοῦ) è nutrito di quel cibo che è il Cristo immortale, il Cristo Dio nostro. O divina carità (ἀγάπη θεία), dove trattieni il Cristo? Dove lo nascondi? […] Apri un poco la tua porta anche a noi indegni, perché anche noi vediamo il Cristo che ha patito per noi […]. Aprici, tu che sei divenuta sua porta perché egli si manifesta nella carne […]. Metti in noi la tua dimora perché, grazie a te, il Sovrano venga a visitare anche noi miseri. Sarai tu ad andargli incontro […]. Tu gli parlerai in nostro favore […] cosicché ci sia rimesso il debito dei nostri peccati, e di nuovo grazie a te, siamo fatti degni di servire lui, il Sovrano (ὅπως αὐτῷ τῷ Δεσπότῃ δουλεύειν διὰ σοῦ πάλιν ἀξιωθῶμεν) […]. Possiamo noi essere accolti da te, o santa carità (ἁγία ἀγάπη), e per mezzo tuo (διὰ σοῦ) godere (ἐν ἀπολαύσει γενοίμεθα) dei beni (τῶν ἀγαθῶν) del nostro Sovrano.[78]
Allora è bene che la carità venga curata dai monaci stessi, perché senza di essa è impossibile giungere alla meta e vivere quello che si è scelto.
Alla fine della lode sulla carità, egli la identifica con la meta della legge, con il compimento più alto dei comandamenti, perché proprio è la carità che realizza visibilmente i comandamenti i cui frutti si possono toccare. Essi, cioè i comandamenti visibilmente realizzati, sono come se fossero la visualizzazione della mano del Dio invisibile e questa mano messa in moto grazie alla carità ci conduce al cielo e a Dio stesso e nello stesso tempo dà la possibilità a Dio di abitare in noi.
Per questo motivo si deve tenere cara (φιλέω) la carità, cercare di afferrarla (καταλαμβάνω), amarla (ἀγαπάω), oppure lasciarsi afferrare, accogliere (συγχωρέω), amare da essa per un unico motivo, per non correre invano.
Ci sono due movimenti cristocentrici nell’intimità umana segnati dalla carità: da uno parte lo sforzo umano e dall’altro Dio stesso. E il campo dove questi due movimenti s’incontrano è proprio il campo della carità. Simeone per primo ne è il testimone e confessa che «termine della legge sei tu (τέλος νόμου), tu che mi circondi, tu che mi infiammi e dall’affanno del cuore mi accendi ad un’infinita brama di Dio e dei miei fratelli e padri»[79]. La sua propria testimonianza[80] immette sinergia con tutta chiesa cioè con i profeti, gli apostoli, i martiri, i Padri, i dottori e tutti i santi. Era proprio la carità che li ammaestrava, li accompagnava, era per loro la forza, l’ispirazione, la perfezione, così come anche per Simeone stesso nell’esercizio del suo incarico di igumeno.
Simeone all’inizio del discorso identificava Cristo con i suoi precetti incoraggiando i suoi confratelli: «Seguiamo dunque anche noi tutti insieme quest’unica via i comandamenti del Cristo»[81], perché infatti, adempiendo i precetti di Cristo si accosta a Lui realmente. Alla fine della stessa Catechesi, fa un passo in avanti, affermando che la cima di ogni virtù e dello sforzo monastico è proprio la carità, poiché «qualsiasi zelo e qualsiasi ascesi accompagnati da molte fatiche, ma che non raggiungono la carità in uno spirito contrito, sono inutili […]. Non si può infatti essere riconosciuti come discepoli di Cristo in base ad altra virtù o al compimento di altro precetto»[82].
La carità, infatti, è la base sulla quale abbiamo conosciuto Cristo, in base alla quale Lui è diventato uomo e si è incarnato, poi ha patito volontariamente le sofferenze vivificanti, e ha salvato noi, sue creature, per condurci nei cieli. Ecco che, proprio sulla base della carità, una persona, scegliendo la vita monastica sceglie Dio e serve Lui e coloro che lo rappresentano in questa terra e nel monastero in modo speciale, il padre spirituale – così si considera Simeone stesso nei riguardi dei suoi confratelli, – e i confratelli stessi.
Simeone va ancora più avanti e identifica Cristo stesso con la carità affermando: «Cette charité, autrement dit la tête de toutes les vertus, est le Crist Dieu […]». Egli facendo parte della sorte umana e diventando uomo, donandoci la possibilità di partecipare alla sua divinità, ci eleva verso i cieli e ha la forza di trasformarci. «C’est cette charité […] (qui) est répandue en abondance dans nos cœurs»; e la comunicazione e la partecipazione della sua divinità « font notre union avec Dieu»[83].
Simeone insiste che soltanto sulla base della fede veritiera in Cristo, come anche sulla base delle buone opere fondate sullo stesso fondamento, si può raggiungere la carità[84]. Volendo raggiungere la carità non si può rimanere nel puro ragionamento mentale poiché essa non si ottiene attraverso la conoscenza razionale.
Cette charité, aucun homme n’a jamais pu la voir, ni la recevoir, ni lui être uni, ni l’acquérir consciemment (γνωστῶς) comme sa propre tête, s’il n’a pas gardé ferme et inébranlable, comme nous avons dit, la foi au Christ et s’il n’a pas édifié avec zèle sur cette foi toutes les œuvres énumérées ; et celui qui ne l’a pas contemplée, ne s’est pas uni à elle et n’a pas goûté sa douceur, ne peut non plus l’aimer comme elle le mérite. En effet, si l’on n’a pas vu quelqu’un, comment peut-on l’aimer ?[85]
Si può notare che il cristocentrismo di Simeone va di pari passo con la virtù della carità espressa e manifestata molto concretamente. Praticamente la carità è la strada e il mezzo che gli permette e lo spinge, partendo da Cristo riconosciuto nel proprio cuore, di andare a cercare e d’incontrare le persone che vivono nel monastero, sottolineando che proprio anche in essi Cristo è presente e perciò questo è il motivo che gli concede di richiedere la carità reciproca nella comunità. Viceversa partendo dal comandamento dell’amore per i fratelli nei quali vive Cristo, si sale a Cristo stesso, che è presente, contemplandolo anche nel cuore proprio.
La carità che risiede nel cuore del monaco gli dà la possibilità di avere la vera «visione» della luce, cioè avere la coscienza di incontrare Cristo che abita nel cuore per mezzo della carità[86]. Simeone afferma ciò in base alla propria «visione» personale di quel momento basata sulla scoperta profonda, veritiera e persuadente che ha ottenuto e che ha segnato il suo cuore[87] con gratitudine e umiltà.
avant que je me fusse relevé, au-dedans de mon cœur misérable, comme si tu l’avais transformé en lumière, tu te fis voir; et alors je connus (ἔγνων) que je te possède consciemment en moi (ἐν ἐμοί σε γνωστῶς). A dater de ce jour, ce ne fut plus en me souvenant de toi et des choses qui t’entourent que je t’aimes (ἠγάπων), et pour le souvenir de ces choses; mais que ce fût véritablement toi, l’amour subsistant (τὴν ἐνυπόστατον ἀγάπην), que je possédais en moi (ἐν ἐμοὶ σέ), telle fut (dès lors) ma foi! Oui, l’amour même, voilà réellement ce que tu es (Ἡ ὄντως ἀγάπη σύ εῖ), ô Dieu![88]
Questa è forse la scoperta più grande di Simeone stesso in quell’istante, cioè che Cristo gli parla non dal di fuori ma dal di dentro, e di ciò Simeone è coscientemente consapevole. Per questo motivo afferma che se è lui, povero, che ama i propri confratelli, in realtà non è lui, ma è Cristo, «il tesoro stesso che ha detto e dice: “Io sono la risurrezione e la vita”, io sono il grano di senape nascosto nella terra, sono io la perla che viene comprata, […] e come sono visto da quelli che adesso mi hanno cercato e trovato, così risplenderò in loro e al di sopra di tutti loro»[89].
Dunque, Simeone è consapevole che Cristo «amante degli uomini» come lo definisce spesso[90], oppure ancora più precisamente ὁ ἀνυπερήφανος Θεός[91] cioè il «Dio non orgoglioso», Simeone lo chiama in questo modo due volte, pratticamente l’unico nella tradizione dei Padri[92] a chiamarlo così, Cristo, colui che abita nel suo cuore. Ecco la testimonianza originale della pietà e spiritualità cristocentrica di Simeone.
La meta del monaco è vedere, incontrare e seguire Cristo. Dio e uomo non si separano mai l’uno dall’altro nel pensiero cristocentrico e nella mistica cristocentrica di Simeone[93]. Sì, Cristo parla, ma non come un «fantasma visionario», una visione irreale o troppo trascendente. Cristo è colui, che parla dentro nella profondità della coscienza, nell’anima e nel cuore del monaco stesso e ne accende il fuoco dell’amore e lo stesso amore acceso è la prova della presenza di Cristo. Lo stesso Cristo, che è anche realmente presente nelle persone concrete della comunità nella quale il monaco sta vivendo il proprio distaccamento dal mondo e dove si vive e si pratica l’adesione a Cristo esercitandosi nel comandamento dell’amore. L’amore stesso, ne è la garanzia.
1.3. L’elemento pneumatologico
Dio è colui che vuole bene, colui è generoso e abbondante nel dare (εὐεργέτης) e in quanto tale vuole che noi uomini partecipiamo della Sua vita. Egli vuole che noi siamo tali per grazia e per l’adozione[94] come Egli stesso lo è per natura. Dio vuole che l’uomo venga trasformato[95] e possa partecipare alla vita divina. In Lui non c’è nessuna gelosia (φθόνος), anzi si rallegra (τέρπεται) ed è gioioso (χαίρει) che noi diventiamo simili a Lui.
Quest’opera divina nell’uomo si effettua grazie allo Spirito Santo, che ci è donato da Dio stesso attraverso l’incarnazione del suo Figlio Unigenito.
Egli prese la carne, la nostra, e ci ha dato lo Spirito divino, […] e questo Spirito ci fornisce tutto. […]: lo Spirito diventa come una vasca (battesimale) divina, luminosissima; egli abbraccia tutti quelli che ne sono degni, che egli trova all’interno (di lui) […], lo Spirito divino riplasma completamente quelli che prende dentro di sé, li rinnova, li fa nuovi in una maniera fuori di ogni aspettativa.[96]
Abbiamo già visto l’interpretazione dell’albero della vita nel periodo prima dell’incarnazione di Cristo. «Nel centro del paradiso era piantato l’albero della vita ma non la vita stessa», afferma Simeone[97], e dopo la venuta di Cristo, è proprio in Cristo (ἐν τῷ Χριστῷ), che sarà donata la vita vera e perfetta (τὴν τελείαν καὶ ἀληθινὴν ζωήν). La vita sarà donata per dono dello Spirito Santo.
1.3.1. La penitenza – dono dello Spirito
Simeone esprime al Signore una grande gratitudine, proprio perché ha piantato in lui l’albero della sua vita. Certo non è lo stesso albero del paradiso primordiale, ma quest’albero, come conferma Simeone, è l’albero dello Spirito divino. «[…], egli solo è realmente l’albero della vita, esso in qualunque terra (γῇ) sia piantato, cioè nell’anima (ψυχῇ) di qualsiasi uomo, e in qualsiasi cuore (καρδία) si radichi, gli mostra subito un paradiso splendido.»[98]
Il paradiso spirituale fiorisce rigoglioso lì, dove è piantato l’albero, cioè lo Spirito. Esso arricchisce il cuore, l’anima, l’uomo stesso, con i propri frutti che sono: «l’umiltà (ταπείνωσις), la gioia (χαρά), la pace (εἰρήνη), la mitezza (πραότης), la compassione (συμπάθεια), l’afflizione (πένθος)[99], le piogge di lacrime (ὄμβροι δακρύων)[100], l’inusitata soddisfazione (ξένη τέρψις) che se ne prova, lo splendore della sua grazia (αἴγλη τῆς χάριτός σου) che s’irradia su tutti quelli che sono in paradiso»[101].
L’albero dello Spirito, ovvero lo Spirito stesso è piantato per mezzo del battesimo[102], o per meglio dire con la espressione di Simeone, «mediante l’acqua e lo Spirito»[103], cioè nel sacramento del battesimo e per mezzo della penitenza che è dono dello Spirito stesso[104]. Questo secondo battesimo[105] vale per quelli che dopo il sacramento del battesimo a causa dei propri peccati e della trascuratezza dei comandamenti divini hanno cancellato l’effetto del primo battesimo. Così la penitenza viene concepita come un grande dono della misericordia di Dio e, nello stesso tempo, essendo uno strumento spirituale, il mezzo strettamente connesso con lo Spirito Santo attraverso il quale ci si può visibilmente reimmergersi nella «piscina luminosa (κολυμβήθρα φωτοειδής)» dello Spirito, manifestando concretamente con «zelo ogni sorta di opere e parole per attirare la grazia dello Spirito», il quale «renderà da corruttibili incorruttibili, da mortali immortali, rigenerando gli uomini – monaci come figli di Dio e dèi per adozione e grazia, anziché semplicemente come figli dell’uomo.» [106]
A questo punto dobbiamo aggiungere ancora la posizione specifica di Simeone che non tutti i suoi avversari, e specialmente parte dei suoi confratelli[107], hanno accettato. Simeone sottolinea ciò qualche riga prima dicendo che figli di Dio e dèi si diventa per conoscenza (ἐν γνώσει), esperienza (πείρᾳ) e contemplazione (θεωρίᾳ), cioè con la consapevolezza mistica[108].
Qui dobbiamo soffermarci e dire che secondo la teologia mistica di Simeone la salvezza è essenzialmente gratuita e viene da Dio. Il contributo dell’uomo sta nella realizzazione delle virtù, come umiltà, penitenza e obbedienza. Nelle tentazioni Dio è presente e la causa principale della vittoria su di esse è Lui. Il problema è che la dottrina di Simeone è qualche volta difficile e anche in certo senso sembra essere pericolosa, poiché egli non fa una chiara distinzione fra lo sforzo personale e la grazia di Dio come fattori per la realizzazione della perfezione morale. Simeone spesso li confonde[109], anche se non ha intenzione di formare una sintesi speculativa dei problemi che riguardano i rapporti tra la grazia e l’attività umana. San Simeone dà altrove[110], per ciascuno di essi, il valore esatto che hanno ricevuto dalla tradizione cristiana e dall’esperienza dei santi. Nonostante il fatto menzionato, Simeone riesce a preservare il libero arbitrio della persona.
Le opere dell’uomo con le quali si vuole seguire Cristo – e fra queste anche quelle della penitenza – nel pensiero di Simeone non vanno pensate fuori dall’azione dello Spirito Santo perché soltanto con Esso e in Esso hanno il loro vero senso e sono veri strumenti spirituali.
By “following”, he means the imitating of him through our works (διὰ τῶν ἔργων), that as he walked, we also may walk like him, and that we may endure with joy temptations and abuse, and may share in the Holy Spirit – without this, neither fasting, nor having one’s pallet on the floor, nor poverty, nor keeping vigil, nor remaining standing, nor solitude, nor bodily toil, nor anything else you might mention, would supply us with a word of wisdom (λόγον σοφίας), or word of knowledge (λόγον γνώσεως) or of discernment (διακρίσεως). For all these practices are a road (ὁδὸς εἰσί), and lead people to the light (πρὸς τὸ φῶς ἄγοντα), but they themselves are not the light (οὐχὶ φῶς). So if I walk along them for a thousand years, and do not reach the light (τὸ φῶς), which is the Holy Spirit (ὅπερ ἐστὶ τὸ Πνεῦμα τὸ ἅγιον), who proceeds from the Father, and through the Son enlightens every man who comes, yet if at my departure from this life I am found to be still in the darkness (ἐν τῷ σκότει).[111]
Colui che non ha lo Spirito Santo nel senso che non sa riconoscerlo coscientemente[112], pur adempiendo le opere della penitenza, non può appartenere a Cristo poiché la «grazia dello Spirito Santo è la causa della nostra unione con Cristo»[113].
Dobbiamo sottolineare che «riconoscere coscientemente» nel pensiero di Simeone, indica un blocco di qualsiasi tentazione o tendenza, di possibili velleità oppure delle illusione nelle quali si potrebbe cadere pensando di possedere lo Spirito Santo e la sua grazia ma in realtà non possederlo. Secondo noi Simeone mette l’accento sul criterio della consapevolezza al posto della emozionalità vale a dire dei sentimenti esteriori e di certi fenomeni psichici, per essere da un lato nella linea con Diadoco[114] e quindi con la tradizione dei Padri e dall’altro per evitare l’eresia del messalianismo[115] con le sue sbagliate tendenze[116] nelle quali i messaliani stessi sono caduti e ancora per combattere contro il formalismo[117] nella chiesa di cui i suoi avversari erano gli esempi più esemplari.
Neri dà la voce a certe affermazioni filosofico-teologiche[118], sulle quali, secondo noi, Simeone probabilmente basa la sua posizione per quanto riguarda il termine di «essere consapevole coscientemente»: se si è consapevoli di qualcosa semplicemente significa che quella cosa la si ha; se non si sa di avere qualcosa, in realtà non lo si possiede né lo si usa; chi non possiede Dio consapevolmente, non lo possiede affatto. E’ vero che ci potrebbero essere obiezioni che cercheremo di spiegare.
Riconoscere lo Spirito significa riconoscere la sua grazia, ciò che essa sta operando nella persona. Riconoscere, infatti, coscientemente come lo Spirito agisce nella persona è importantissimo per la fede stessa nel Signore.
Il suo argomento teologico è quello delle relazioni coscienti e consapevoli fra le persone dentro la Trinità.
Che, dunque? Il Padre ama forse il Figlio in modo inconscio (ἀγνώστως), e il Figlio è con il Padre in modo inconscio (ἀγνώστως) e senza vederlo? Certamente voi mi risponderete di no! Se infatti noi ammettessimo una cosa simile e definissimo che il Padre non conosce (ἀγνοεῖν) il Figlio, la nostra fede svanirebbe e sarebbe perduta. Poiché, se essi si ignorano (ἀγνοούντων) a vicenda ne viene necessariamente che anche noi li ignoriamo (ἀγνοεῖν) del tutto: e se è così noi siamo degli atei, perché non possediamo la conoscenza di Dio (Θεοῦ γνῶσιν μὴ ἐσχηκότες). Se invece – secondo quanto è detto –, come il Padre conosce (γινώσκει) il Figlio, così il Figlio conosce (γινώσκει) il Padre e come Dio è con Dio Padre, e allo stesso modo il Padre è con il Figlio – come quando dice: “Come tu, Padre, in me e io in te, così anche essi siano in me e io in essi” –, ugualmente è del tutto manifesta l’unità reciproca.[119]
Allora poiché l’unione fra le persone nella Trinità – unite di natura reciprocamente e senza principio – è consapevole, analogicamente anche l’unione dell’uomo, unito per adozione e per grazia con il Figlio, deve essere consapevole. L’argomentazione di Simeone qui è molto chiara.
Un’altra argomentazione di Simeone parte dal presupposto che Dio stesso è amato come un padre dai suoi figli ed è proprio in questa qualità di relazione dell’amore reciproco che il Signore si fa conoscere all’uomo. Dio, «se fait reconnaître de façon tout à fait consciente (γνωρίζεται πάνυ γνωστῶς) et voir en pleine clarté, lui l’invisible (ὁ ἀόρατος), invisiblement il parle et écoute (ἀοράτως λαλεῖ καὶ ἀκούει) et, face à face, comme un ami avec un ami, il s’entretient, lui Dieu par nature, avec les dieux nés par grâce de lui»[120]. Per Simeone è naturale, che un padre voglia essere conosciuto e non voglia essere per i figli un padre che si nasconde e rimane sepolto nel silenzio.
Il «riconoscere coscientemente» lo Spirito e la penitenza sono legati. Ciò che riguarda la penitenza è ribadito, per esempio, anche nelle Catechesi 6, 4 e 34 rivolte ai suoi confratelli monaci. Nella Catechesi 6 afferma che si dovrebbe partecipare allo Spirito Santo faticando[121] e così ricevendolo, custodendolo e curandolo attraverso la vita delle virtù.
Ora il regno dei cieli consiste nella partecipazione allo Spirito Santo (Ἡ δὲ βασιλεία τῶν οὐρανῶν ἡ μετοχὴ ὐπάρχει τοῦ Πνεύματος τοῦ Ἁγίου): questo solo infatti è ciò che significa “il regno di Dio è dentro di noi”, in modo che ci diamo cura di ricevere e custodire dentro di noi lo Spirito Santo. Non dicano dunque quelli che sono estranei a una continua violenza, angustia, obiezione e tribolazione: “Abbiamo in noi lo Spirito Santo”, poiché senza le opere, i sudori e le pene della virtù tale ricompensa non è data ad alcuno.[122]
Nella Catechesi 4 spiega che l’impegno della penitenza rimane fino alla morte per poter cogliere i frutti.
Questa è la penitenza che – attuata così in modo compiuto, come abbiamo detto, fino alla morte, con fatiche e tribolazione – farà sì che versiamo lacrime amare, mediante le quali essa asterge e purifica la sordidezza e le brutture dell’anima. Dopo ciò, essa ci dona una penitenza pura e rende dolci le lacrime amare (εἰς γλυκέα τὰ πικρὰ δάκρυα μεταβάλλει), genera gioia perpetua (χαρὰν ἀένναον ἀπογεννᾷ) nei nostri cuori e ci ottiene di vedere lo splendore che non tramonta.[123]
Ε nella Catechesi 34, Simeone incoraggia di sfruttare bene la penitenza nel percorso di questa vita per poter ottenere ancora prima di morire la grazia del Signore, cioè possedere coscientemente dentro di sé il regno dei cieli.
Perciò, dunque, quelle meraviglie di Dio che ho visto e che ho conosciuto di fatto e per esperienza, di queste non sopporto di non parlare, ma anzi ne rendo testimonianza anche a tutti gli altri come davanti a Dio, dicendo a gran voce: “Correte tutti, prima che la porta della penitenza vi venga chiusa dalla morte (Δράμετε πάντες πρὸ τοῦ κλεισθῆναι διὰ θανάτου τὴν τῆς μετανοίας θύραν), correte per giungere ad afferrare prima di partirvi da questa vita, affrettatevi per ricevere, bussate perché prima della vostra fine il Signore vi apra la porta del paradiso e si manifesti a voi, siate solleciti di possedere coscientemente dentro di voi il regno dei cieli (σπουδάσατε τὴν τῶν οὐρανῶν βασιλείαν ἐντὸς ὑμῶν καὶ γνωστῶς κτήσασθα), non partite di qui spogli di questo, soprattutto voi che immaginate di averlo in voi in modo inconscio (καὶ μάλιστα οἱ ταύτην ἀγνώστως ἔχειν ἐν ἑαυτοῖς οἰόμενοι), mentre non avete nulla a causa della vostra presunzione”.[124]
Come già abbiamo detto, per Simeone «riconoscere consapevolmente» è legato e va di pari passo con la vera penitenza. Coloro che conducono la vita con i frutti della vera penitenza cominciano pian piano a riconoscere in sé la presenza dello Spirito già comunque presente. Ciò non significa che lo Spirito è presente soltanto se lo si riconosce, assolutamente no. Simeone non dubita della presenza dello Spirito donata nel sacramento del battesimo alla persona battezzata[125]: egli fa un passo avanti facendolo però retrospettivamente, partendo dal nostro futuro di salvezza. Per lui è importante la premessa, cioè riconoscere il Signore nell’aldilà, nel nostro incontro salvifico con Dio nel futuro. «Chi non possiede dentro di sé coscientemente il regno dei cieli, come vi entrerà dopo la morte? Chi non vede il Figlio dimorante in sé insieme con il Padre mediante lo Spirito, come sarà con loro nel futuro […]?»[126] Per questo motivo, se lo vogliamo riconoscere nell’aldilà, allora dobbiamo cominciare a riconoscere la sua presenza in noi già qui nel presente, nella vita terrena. Qui il ruolo importante lo gioca la penitenza, la lotta con tutto lo zelo. Se non si lotta, afferma Simeone con una certa preoccupazione per la salvezza dei suoi confratelli monaci a lui affidati,
neppure potremo avere il cuore puro, né lo Spirito Santo abiterà in noi in modo cosciente (οὐδὲ τὸ Ἅγιον Πνεῦμα ἐνοικήσει γνωστῶς ἐν ἡμῖν), né saremo resi degni, come santi, di vedere Dio, né qui né – credo nell’aldilà, se ce ne andremo ciechi. Come dice Gregorio il Teologo, tanto ci sfuggirà di quella visione quanto – “a misura dell’incapacità di vedere, che ciascuno di noi ha quaggiù” – ci saremo volontariamente privati nella vita presente della sua luce.[127]
La grazia dello Spirito, al monaco che sta facendo penitenza ed è salito sulla strada della perfezione rinunciando a se stesso cioè donandosi con tutto il cuore al servizio del Signore e al suo amore – e qui Simeone avverte che nessuno cada nell’illusione di conoscerla bene – pian piano apre gli occhi in modo tale, che l’unione con Dio si verifica nella sensazione intellettuale (ἐν νοερᾷ αἰσθήσει[128]), nella conoscenza (γνώσει) e nella contemplazione (θεωρίᾳ). L’unione con Dio diventa così interamente completa e reciproca, cioè il monaco vede se stesso in Dio e Dio lo vede in sé. Perciò Simeone alla fine ha il coraggio di affermare al riguardo dei «perfetti» descritti sopra e al riguardo di Dio: «Dieu, en effet, reste en eux de façon consciente (γνωστῶς) et eux restent en Dieu de façon consciente (γνωστῶς), sans division (ἀχωρίστως) ni éloignement possible (ἀδιαστάτως)»[129]. Nella stessa sezione, Simeone basandosi sulle parole del vangelo «[…] senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5), sottolinea, che senza Signore è impossibile raggiungere ciò.
Possiamo affermare che le opere della penitenza fuori della grazia dello Spirito Santo che si riconosce coscientemente, non osano neppure chiamarsi opere della penitenza, perché sono svuotate del proprio senso.
Simeone afferma ciò dicendo che, senza non soltanto uno sguardo mentale (νοερῶς), che sarebbe inferiore, ma piuttosto senza uno sguardo profondo e cosciente interno (γνωστῶς καθορᾶν) dell’inabitazione (γνωστῶς οἰκοῦντα) dello Spirito dentro di noi[130], non si può veramente seguire Cristo, adempire i suoi comandamenti e coscientemente vedere i veri misteri divini cioè Cristo stesso, ma si rimane soltanto sulla percezione e sull’osservazione sensuale (αἰσθητῶς βλεπόμενα) e dunque esteriore, delle azioni fatte dall’uomo, e nello stesso tempo delle azioni divine che l’uomo subisce[131].
L’uomo proprio praticando il bene coscientemente viene introdotto nella famigliarità con Dio. Ciò che mette in moto lo zelo dell’attività del bene, e la pratica dei comandamenti, cioè dell’amore, è l’intelletto (νοῦς), che è incapace di essere ozioso (μὴ δυνάμεον). L’uomo è stato creato proprio così, «Adamo ricevette l’ordine di lavorare (ἐργάζεσθαι) e di sorvegliare (φυλάσσειν) e vi è in noi un certo moto (καλὰ κίνησις) naturale che ci spinge a lavorare per il bene»[132]. Ecco che cosa significa «lavorare» e «sorvegliare» lo Spirito e i suoi doni che sono presenti dentro l’uomo, per mezzo dell’amore, per mezzo dei comandamenti e delle opere della penitenza e dell’ascesi.
La penitenza senza l’azione dello Spirito che è amore verso l’uomo, non ha nessuna forza di attirare il perdono. Simeone rivela questa consapevolezza. Lo confermano le parole della voce «dall’alto» nella «visione», che lo incoraggia dicendo: «se anche inciampi in qualcosa, ciò è per riportarti all’umiltà, ma non ritirarti dalla pratica della penitenza (μὴ ἀποστῆς τῆς μετανοίας ἐπιμελούμενος), poiché essa, unita al mio amore per l’uomo (τῇ ἐμῇ φιλανθρωπίᾳ), cancella le cadute passate e presenti»[133].
Simeone stesso è consapevole che il Signore gli ha mostrato un altro paradiso, cioè un paradiso intellettuale (νοητόν) tra esseri sensibili, e fornito di consapevolezza ed è inoltre consapevole (γνωστῶς) della presenza dello Spirito[134] e vuole che anche i suoi confratelli prendano parte e ne partecipino.
Ora il regno dei cieli consiste nella partecipazione allo Spirito Santo, questo solo, infatti, è ciò che significa “il regno di Dio è dentro di noi”, in modo che ci diamo cura di ricevere e custodire dentro di noi lo Spirito Santo. Non dicano dunque quelli che sono estranei a una continua violenza, angustia, abiezione e tribolazione: “Abbiamo lo Spirito Santo”, poiché senza le opere, e i sudori e le pene della virtù tale ricompensa non è data ad alcuno.[135]
Si richiede una partecipazione consapevole. Simeone ritiene che anche i suoi confratelli e non solo, debbano avere una percezione consapevole (γνωστῶς) della presenza dello Spirito, altrimenti potrebbe trattarsi di una presenza falsa.
Si quelqu’un disait que chacun de nous, fidèles, reçoit et possède l’Esprit sans en avoir connaissance, ni conscience (ἀγνώστως καὶ ἀναισθήτως), il blasphème, […] mais si tout cela […] se réalise en nous à notre insu, sans que nous en ressentions rien, il est bien évident que nous n’aurons pas non plus la moindre conscience de la vie éternelle qui en découle et qui demeure en nous et que nous ne contemplerons pas la lumière de l’Esprit Saint ; au contraire, nous resterons morts, aveugles et insensibles, alors aussi bien que maintenant.[136]
Quello che costituisce la vera vita dell’uomo è proprio lo Spirito Santo. Il ruolo dello Spirito per la vita dell’uomo è talmente grande che, se questi viene spogliato della vita dello Spirito, è morto, o meglio, si riveste di un abito di mortalità, di corruzione e di decomposizione[137]. Ecco, perché Simeone esorta i suoi ascoltatori e in prima fila i monaci, a impossessarsi dello Spirito, perché secondo lui si tratta di una questione di vita o di morte. «Affrettatevi a procurarvi il possesso dello Spirito, che proviene da Dio ed è divino, affinché diventiate […] celesti e divini, tanto grandi quanto disse il Signore, affinché diventiate anche eredi del Regno dei cieli per i secoli.»[138]
E il regno dei cieli significa per Simeone proprio essere partecipi dello Spirito Santo, dando tempo e spazio alla cura di riceverlo e custodirlo nella propria intimità. Lo Spirito si ottiene e si custodisce con fatica, con sudore, con le pene, con l’esercizio della virtù[139]. Non ci si può tranquillizzare ingannandosi e dicendo a se stessi che abbiamo in noi lo Spirito Santo e nello stesso tempo non fare niente. No, si deve faticare. Qui si vede che l’ascesi, che in principio è l’adempimento dei comandamenti di Dio, eseguita consapevolmente, è per Simeone l’elemento pneumatico attraverso il quale si mostra, sempre più pienamente, la grazia dello Spirito ottenuta nel battesimo.
La fatica ascetica segnata dallo zelo che aiuta ad unire lo spirito proprio con lo Spirito di Dio, e specialmente la penitenza, porta alla deiformità. «Colui dunque che ha unito (ἑνώσας) allo Spirito divino il proprio spirito è diventato deiforme (θεοειδής)[140], avendo preso Cristo nel suo cuore, è cristiano, a opera di Cristo»[141], per il fatto che Cristo in lui è presente tutto intero pur rimanendo inafferrabile e inaccessibile. «Ciascuno di noi, singolarmente, o Salvatore, abita tutt’intero con te tutt’intero; con ciascuno di noi, individualmente, tu sei solo con lui solo e al di sopra di noi tu sei solo, tutt’intero. Ora dunque tu ti trovi in noi operando cose che tutte incutono spavento.»[142] Quello che incute spavento secondo Simeone è il fatto, che l’uomo diventi deiforme a tal punto che gli uomini diventano membra di Cristo e Cristo diventa membra degli uomini[143]. Così si realizza l’unità stretta fra Dio e uomo.
1.4. L’elemento escatologico
Per Simeone il tempo privilegiato nella vita di un monaco è proprio il tempo serale e notturno che è il tempo per eccellenza dedicato alla preghiera, soprattutto quella personale. Questo si deduce bene dalle Catechesi 30 e 31, che vedremo più tardi e cercheremo di scrutare.
Questo tempo serale e notturno nello sviluppo della preghiera in genere e specialmente di quella liturgica ma anche nella veglia personale, ha avuto un sottofondo escatologico, perché è nell’oscurità della notte che lo sposo viene e noi dobbiamo essere trovati pronti, con le lampade accese (Mt 25, 1-13). Per esempio nei Canoni di Ippolito dell’IV. sec. si può trovare un incoraggiamento per ciascuno che si preoccupi di pregare, vigilare e lodare il Signore alla sera, a metà della notte, e anche al mattino, perché è il tempo in cui tutta la creazione loda il Signore e anche quando uno dorme nel suo letto deve pregare Dio nel suo cuore, perché ciò corrisponde al vigilare escatologico per la venuta del Signore[144].
La preghiera così porta in sé un dinamismo escatologico poiché essa è lo strumento dell’unione fra l’uomo e Dio. La meta della preghiera dell’uomo, infatti, consiste nel raggiungere la sinergia con Dio stesso.
1.4.1. La preghiera
Il monaco prega e nella preghiera si trova davanti al Signore: ciò significa che veramente c’è un incontro personale reale fra Dio e l’uomo, secondo Simeone, è una persona beata. Il monaco che attua questo nella propria vita è beato – μακάριος.
Bienheureux ce moine (μακάριος ὁ μοναχός) qui, se trouvant dans la prière en présence de Dieu (ἐν εὐχῇ τῷ Θεῷ παριστάμενος), le voit et est vu de lui, et qui, se sentant lui-même devenu étranger au monde et existant en Dieu seul (ὄντα δὲ ἐν τῷ Θεῷ μόνῳ), ne peut plus savoir s’il est dans le corps ou hors du corps, car il entendra des paroles ineffables qu’il n’est pas permis à l’homme de prononcer ; il verra ce que l’œil n’a pas vu, ce que l’oreille n’a pas entendu, ce qui n’est pas monté dans le cœur charnel d’un homme.[145]
Ne risulta che la preghiera vera per il monaco è una respirazione della vita per mezzo della quale al monaco si aprono le porte della vita eterna e con la quale si raggiungono le cose non di questo mondo, ma le cose che «occhio non vide e orecchio non udì né mai entrano nel cuore di un uomo» (2Cor2, 9).
Simeone riprende l’idea di San Giovanni Climaco, che l’ascesi è una morte volontaria, che viene giustificata soltanto in base alla risurrezione anticipata alla quale il monaco tende[146]. Il nostro autore nei suoi discorsi e scritti, nelle testimonianze personali e negli incoraggiamenti, mai rigetta nelle loro forme sviluppate né la preghiera ecclesiastica e liturgica[147], né la preghiera personale, anzi ad esse incoraggia i monaci, sorgente della compunzione personale, e delle lacrime.
Per quanto riguarda le celebrazioni liturgiche festive fatte nella chiesa come per esempio Natale, la Risurrezione, la Discesa dello Spirito ecc., Simeone incoraggia i monaci ad intravedere in esse, con lo sguardo d’intelligenza, le cose che si realizzeranno nel futuro escatologico. La gioia del festeggiare non sta nei riti esteriori, nella loro bellezza, anche se lui non è contro le feste – anzi incoraggia a celebrarle in bellezza e splendore il più possibile – ma la gioia nel cuore dovrebbe scaturire dal motivo di cui i riti delle feste sono un simbolo e ci trasportano e ci uniscono spiritualmente a quelli che là in cielo sono in festa nello Spirito[148]. Il mistero (μυστήριον) delle feste sta proprio nel fatto che esse «désignent symboliquement les actes mêmes que tu accomplis»[149].
La preghiera, sia quella fatta in chiesa sia quella eseguita nella cella monastica, ha un unico scopo: aiutare a portare il monaco all’illuminazione e all’unione con Dio[150].
In un certo senso la preghiera può rendere celeste[151] l’uomo che prega, come colui che già in questa terra fa parte escatologicamente del regno di Dio. Nella preghiera, infatti, si mostra quanta fede si ha verso Cristo; nella preghiera si fa vedere quanta disposizione si ha per portare il peso della fatica delle veglie con le suppliche, il pentimento, la glorificazione ecc.; è nella preghiera che essendo davanti il Signore, possono venire le lacrime purificatrici del secondo battesimo donato dallo Spirito; nella preghiera si esegue il comandamento di «coltivare la terra», cioè coltivare la memoria di Dio come vedremo più avanti.
Siamo stati creati per essere celesti e il fatto di essere celesti, caratterizza l’uomo affinché «dopo avere ricevuto quaggiù qualche piccolo beneficio, grazie alla riconoscenza e all’amore verso Dio godiamo lassù dei beni migliori che durano eternamente (αἰωνίζοντα ἀπαλαύσωμεν)»[152]. In un altro momento egli conferma ciò ponendo le domande retoriche ai suoi confratelli nel monachesimo: «Se però voi non siete, o fin da quaggiù voi non diventate celesti (ἐπουράνιοι), come potete immaginarvi, in qualsiasi modo, di abitare i cieli con lui? Come anche di entrare nel Regno insieme ai celesti (μετὰ τῶν ἐπουρανίων εἰσελθεῖν), di regnare e di stare insieme al Re e Signore dell’universo?»[153]
Dall’altra parte non si deve essere attaccati troppo a ciò che si è raggiunto per grazia divina. Simeone, infatti, testimonia e confessa di aver personalmente commesso un errore pensando e convincendosi, arrivato a una certa grazia della «visione»[154], di aver raggiunto già in questa terra il massimo che si potrà raggiungere in un futuro. Erroneamente era convinto che dopo la morte si sperimenterà allora come adesso, la stessa gioia e la stessa gloria che gli era stata gratuitamente donata. Rischiava infatti di perdere la sana tensione dell’aspettare e di quel vegliare evangelico (Mt 25, 1-10). Il Signore in quel momento di offuscamento, di ubriachezza spirituale che appena, lo portava a chiudersi e ad accontentarsi di ciò che era a non aspettare ciò che verrà, l’avvertì: «Quanto sei d’anima piccola, se ti accontenti di questo! Rispetto alle realtà future, queste sono come un cielo disegnato su una carta, e che si tiene in mano. Quanto, infatti, tale cielo è inferiore al cielo vero, tanto e ancor più incomparabilmente la gloria futura si rivelerà a te superiore a quella che ora hai visto»[155].
Per essere partecipi alle cose future dell’eschaton, per essere uomini celesti, già da adesso sulla terra, Simeone invita i suoi monaci alla santità. La partecipazione alla santità è un mistero che si realizza non soltanto in ciascuno dei santi nell’aldilà, ma si realizza nei corpi dei santi già su questa terra[156], e anche se «il mistero del mondo nuovo resta largamente nascosto, talvolta continua a manifestarsi nei corpi dei santi»[157]. Secondo Simeone la partecipazione alla santità è una nuova porzione (νέα μερίς) possibile solo in Cristo, perché Cristo ne è la primizia (1Cor 15, 23). Perciò non è più un’ombra o una figura ma «celle-ci est la vérité (ἀλήθεια), la restauration et la rénovation du monde entier»[158]. Colui che è Figlio di Dio, si è fatto figlio d’Adamo e «il n’engendre pas charnellement mais restaure la créature spirituellement»[159].
Per questo motivo Simeone sottolinea l’importanza del seguire le opere dei santi[160] famosi, quelli di una santità conosciuta a tutti, ma anche quelli odierni e contemporanei. «Vuoi dunque sapere ciò che facevano i nostri santi padri seduti nelle loro celle (ἐν τοῖς ἑαυτῶν κελλίοις καθήμενοι)? Leggi le loro vite e comincia con l’imparare intanto la loro opera corporale (τὴν σοματικὴν τέως πρᾶξιν), e poi io ti dirò dell’operazione spirituale (τήν πνευματικὴν ἀργασίαν) che essi compivano.»[161]
Fra le opere corporali che Simeone enumera[162] ci sono povertà, digiuno, veglia, continenza, pazienza, più interessante per noi è la veglia – ἀγρυπνία. Non spiega che cosa sia veglia in nessun luogo. Di solito essa si trova nell’elenco sopra menzionato. Soltanto una volta la mette a pari con la preghiera e il digiuno[163] chiedendo ai propri confratelli se abbiano ottenuto il supremo grado di esse.
Da parte nostra possiamo cercare la spiegazione della veglia nell’ambiente monastico di Giovanni Climaco[164]. Per lui vegliare è uguale a «stare alla presenza del nostro Dio e Re tutte le volte che, a sera, durante la notte e durante il giorno, stiamo in preghiera». Vegliare si può in vari modi: 1. l’intera notte a partire dalla sera, tendendo le mani in preghiera (contemplativa), distaccandosi dalle cose materiali e spogliandosi di ogni preoccupazione mondana»; 2. «recitando i salmi»; 3. dedicandosi piuttosto alla lettura; 4. lottando valorosamente contro il sonno con il lavoro delle mani; 5. concentrandosi sul pensiero della morte e cercando così la compunzione. «Tra tutti costoro, i primi e gli ultimi vegliano come amici di Dio; i secondi vegliano come monaci; i terzi, invece, percorrono una via assai più modesta: Dio però accetta e valuta i doni secondo l’intenzione e la forza di ciascuno». Sulla base della concezione di Climaco, secondo noi si può affermare che anche per Simeone «veglia» e «vegliare» sono sempre collegati allo sforzo di essere presente davanti a Dio pregando in uno dei modi sopracitati.
Il processo del passaggio da qui all’eschaton per un monaco non è un processo già completato sulla terra.K. Ware afferma che il Nuovo Teologo, insieme «con Ireneo, Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore, crede che il nostro progresso nella santità non si arresti mai», ma «continua senza interruzione, attraverso tutte le età fino alla vita futura», e che «la nostra sete di Dio non raggiungerà mai la sazietà (κόρος)», ma «rimarrà sempre insoddisfatta»[165].
Dio è infinito nella sua incomprensibilità ma noi non raggiungeremo[166] mai una piena conoscenza di lui, pur facendo con perseveranza le azioni buone in tutte le forme[167], che attirano a se la misericordia di Dio. Gli asceti testimoniano la propria conversione e diventano «figli della luce divina […], anche essi luce, figli di Dio e dei secondo la grazia.». Essi, con «preghiere incessanti» e frequenti, con «parole indicibili», con «torrenti di lacrime» sono pronti con l’anima purificata ad ottenere il «fuoco dell’amore» e il «fuoco del desiderio», ma non la luce stessa «nella sua completa perfezione»[168]. Ci vuole la luce. Così anche per il monaco rimane aperta la prospettiva di un continuo crescere nell’amore verso Dio.
E anche se si arriva a un’accoglienza dello Spirito tutto intero già in questa vita, non è semplicemente all’improvviso.
L’uomo spirituale (ὁ ἄνθρωπος ὁ ψυχικός) […] ci arriva solo quando abbia effettuato tutto quello che è nelle sue possibilità: lo spogliamento (γύμνωσιν), l’insensibilità ai desideri (ἀπροσπάθειαν), la separazione dai propri congiunti, l’amputazione della propria volontà (ἐκκοπὴν τοῦ θελήματος), il rinnegamento del mondo (ἄρνησιν τοῦ κόσμου), la sopportazione delle prove (ὑπομονὴν τῶν πειρασμῶν), la preghiera (προσευχήν), l’afflizione (πένθος), la povertà (εὐτέλειαν), l’umiltà (ταπείνωσιν) per quanto ne abbia la forza.[169]
Quanti sforzi da parte del monaco ci vogliono per tenersi sulla giusta strada indirizzata verso l’eschaton! Un vegliare continuo e senza sosta cui corrisponde anche il vegliare durante la notte[170], cioè passare tutto il tempo nella preghiera.
Ciò è necessario per il fatto che dopo il battesimo, a causa delle azioni malvagie «la vie éternelle (τῆς αἰωνίου ζωῆς) elle-même, la lumière inaccessible (τοῦ ἀδύτου φωτός), les biens éternels (τῶν αἰωνίων ἀγαθῶν), la sanctification (τοῦ ἁγιασμοῦ[171]) et l’adoption filiale (υἱοθεσίας) nous échappent»[172], ma «attraverso la penitenza (μετανοίᾳ), la confessione (ἐξομολογήσει) e le lacrime (δάκρυσι), riceviamo la remissione dei peccati passati, la santità (τὸν ἁγιασμόν) e la grazia celeste (τῆς ἄνωθεν χάριτος)»[173].
La grazia celeste per l’anima è importante e fondamentale perché senza questo dono «l’anima non possiede la sicurezza di essere riunita a Dio per l’eternità (εἰς αἰῶνας συνέσεσθαι), di ottenere l’ineffabile unione mistica (ἢ μηστικῶς καὶ ἀνεκφράστως αὐτῷ συνάπτεσθαι), di godere della sua bellezza inaccessibile (τοῦ ἀπροσίτου κάλλους ἐπαπολαύειν)»[174]. Simeone afferma, che la promessa dei beni futuri e del regno dei cieli dopo la vita terrena è certa e non illusoria proprio a motivo del pegno (ἀρραβῶνα)[175] dello Spirito Santo ricevuto dall’anima per le mani di Cristo. Ma il possesso del pegno futuro dipende dall’impegno spirituale dell’asceta, che non è altro che essere in uno stato di veglia nel senso stretto cioè passare certo tempo nella preghiera, ma anche nel senso largo nell’eseguire i comandamenti e virtù[176].
Per questo motivo il monaco deve essere molto attento a non perdere l’ardore.
Giunge il momento in cui uno di quelli che lottano si chiede : “Fino a quando bisogna soffrire?”. Se si disgusta delle fatiche dell’ascesi (τῶν ἀσκητικῶν πόνων κατολιγωρήσῃ), se si trascura i comandamenti (διὰ τῆς ἀμελείας τῶν ἐντολῶν), oppure si abbandona la penitenza continua (ἐγκαταλείψεως τῆς διηνεκοῦς μετανοίας), è come se uno mandasse a monte il contratto. E perde (ἐκπίπτει) così simultaneamente sia il pegno (τοῦ ἀρραβῶνος) sia la speranza (ἐλπίδος) in Dio.[177]
Certamente non è così difficile per il monaco, lui per acquistare una disposizione di «odio» verso il mondo (ὁ μισῆσαι θέλων τὸν κόσμον) dovrebbe ancora di più «possedere nel profondo dell’anima propria l’amore e un ricordo incessante di Dio (ἔχειν ὀφείλει πρὸς τὸν Θεὸν καὶ μνήμην τούτου ἀένναον)»[178]. Difatti, il monaco ama lo Sposo verso il quale si è rivolto e a motivo dell’amore verso di Lui ha lasciato questo mondo.
Essere perseverante, secondo Simeone, non è una virtù stoica, bensì una virtù di ogni uomo. E non soltanto, ancora di più, è una virtù cristiana, perché ad essa è legata la speranza della vita eterna. Infatti, dice: «tutto il resto, o Signore, mi metteva in condizione di esercitare la pazienza (ὑπομονήν), porgendomi la speranza (ἐλπίδα) della vita eterna; in conseguenza di ciò provavo una grande gioia»[179]. In questo senso, lo è specialmente una virtù monastica per eccellenza poiché porta a termine anche lo sforzo della preghiera e del vegliare.
Da una parte è un dono di Dio da chiedere e infatti, la si chiede per sé e per gli altri come si può vedere nei suoi Inni[180], che testimoniano la sua preghiera personale. Dall’altra parte, essa fa parte dello sforzo umano che purifica e prepara alla «visione».
La preghiera è lo strumento attraverso il quale si comincia a gustare, qui e ora, già qualcosa dell’evo futuro. Ma non significa che è già la pienezza. È un processo cominciato ma non completato, aperto verso il futuro escatologico, nel quale si è già entrati. Per gli spirituali, cioè coloro che possiedono lo Spirito Santo, è caratteristico uno stato di tensione interna positiva, che non è ferma, ma sempre aperta verso qualcuno o qualcosa, e mette la persona in movimento costruttivo. La loro opera è contrassegnata con una caratteristica: «dall’alto al basso, dal basso all’alto, per loro la corsa non cessa mai»; lo spirituale «quando è caduto, allora corre, quando corre se ne sta fermo, ritto; quando è interamente caduto a terra, allora capita che è tutto in alto; quando cammina attraverso ai cieli, si trova di nuovo saldamente fissato in basso; l’inizio della sua corsa ne è la fine e la fine ne è il principio»[181]. Ecco il paradosso[182] di possedere Dio: lo possediamo e nello stesso tempo lo cerchiamo. Questo paradosso è il paradosso della stessa preghiera. Beato è colui che prega cioè pregando sta cercando Dio e nello stesso tempo, pregando, già lo possiede ma non ancora pienamente. Il monaco che prega ha la possibilità di fare un’esperienza escatologica, uscire da qui rimanendo qui ed entrare là non uscendo da qui.
Chi entra nella preghiera è testimone di un processo già iniziato, ma ancora incompleto, che ha il prolungamento nell’ἔσχατον. Per il monaco che percorre questa via, ci vuole umiltà deificante (τῆς θεοποιοῦ ταπεινώσεως)[183], e amore deificante (ὦ θεοποιὸς ἀγάπη)[184].
Finiremo questa parte con la preghiera espressa da Simeone stesso: «O Signore, da’ anche a noi di saziarci in abbondanza e concedilo anche a tutti quelli che ti cercano e ti desiderano con fervore, affinché anche noi possiamo godere in pienezza, con i tuoi santi, i beni eterni per i secoli dei secoli. Amen.»[185]
1.5. La visione interiore di Dio
Simeone insiste molto sulla necessità dell’esperienza della visione di Dio[186]. Da Simeone non incontriamo un concetto della visione come un fenomeno soltanto caratteristico dei profeti e mistici dotati di un dono speciale e eccezionale che appartenesse ai pochi. Secondo Simeone la visione di Dio è un’espressione dell’unione dell’uomo con Dio, uno stato di unione, alla quale tutti i cristiani[187] sono chiamati. E’ un’azione di Dio, la sua iniziativa trasformante insieme con la risposta dell’uomo alla quale si è chiamati[188]. Il suo ragionamento è il seguente.
Dopo il primordiale fallimento, i progenitori hanno perso la capacità di vedere Dio, hanno perso la visione di Lui, e si sono ridotti soltanto alla visione delle cose sensibili[189]. Il posto centrale lo tiene qui l’economia divina che è totalmente gratuita e solo lei dà la possibilità all’uomo fallito di risarcire le conseguenze del fallo. Qualsiasi persona, anche quella del monaco, ha la possibilità di prendere parte a questo gratuito processo dell’economia tramite una trasformazione del corpo e dell’anima, che possa avvenire e realizzarsi attraverso una trasformazione mistica. Così, com’è avvenuto l’accecamento dei progenitori in un processo graduale[190], così anche la vista spirituale dell’uomo già redento, deve avvenire progressivamente in un processo[191]. Il fatto più importante e iniziale da ristabilire in questo processo è la visione perduta di Dio.
[L’uomo] rimase soltanto nelle cose sensibili (αἰσθητοῖς), […] dalla condizione degli esseri razionali divenne privo di ragione (ἄλογος) e materiale (ἔνυλος) […]. Che meraviglia fuori di ogni esperienza! Come un corpo, l’anima (ψυχή) fu privata degli occhi e, divenuta cieca (ἐκτυφλωθεῖσα)[192], non era più in grado di contemplare Dio (Θεὸν μὴ καθορῶσα). […] Essi (progenitori) discesero agli inferi […], ma io ho avuto pietà di loro e sono disceso dall’alto; io, che sono totalmente invisibile, ho perso parte al greve spessore della carne e ho assunto un’anima, io, che sono Dio, senza mutamento, io, il Verbo, sono diventato carne. Siccome dalla carne ho ricevuto un principio, divenuto uomo, sono stato visto da tutti (ὡράθην πᾶσιν). […] Perché proprio per questo, ho creato Adamo, perché mi vedesse (τοῦ καθορᾶν με). Siccome divenne cieco (δὲ ἐτυφλώθη) e da lui lo divennero insieme anche tutti i suoi discendenti, io non tolleravo che […] erano diventati ciechi (τυφλωθέντας) per inganno (τῇ ἀπάτῃ) del serpente, ma io sono diventato in tutto simile agli uomini, sensibile (αἰσθητός) con loro sensibili e mi sono volontariamente unito a loro. Tu vedi quanto desiderio io abbia di essere visto (ὁπτᾶσθαι) dagli uomini, tanto da aver voluto diventare uomo e come uomo farmi vedere. Come dunque sei arrivato a dire che io mi nascondo a te e che non mi lascio vedere? In verità io emano bagliori (λάμπω), ma tu non guardi: fa’ attenzione al mistero! (Πρόσεχε τῷ μυστηρίῳ).[193]
Dal testo sopra citato si vede che per Simeone la restaurazione salvifica non sta nel ristabilire uno stato perfetto di tutto il creato, ma quello che Dio ristabilisce per la sua incarnazione, morte e risurrezione è la potenzialità e la possibilità per la creazione, per ogni creatura e per ogni uomo ed anche per il monaco, passo dopo passo di riavere la visione e la conoscenza anche sensibilmente sperimentata di Dio, che si fa vedere, e che è anche il frutto dell’unione dell’uomo con Lui.
Secondo la teologia ortodossa la teofania[194] di Dio ha un ruolo importante nella guarigione dell’uomo, perché essa dipende dalla partecipazione dell’uomo alla teofania. Dio, da parte sua, si rivela e l’uomo ne viene illuminato. Se l’uomo si apre alla teofania, guarisce, si sviluppa, progredisce e cresce. Per questo motivo è importante che l’uomo partecipi all’energia salvifica nell’esperienza dello Spirito Santo[195].Simeone capisce la teofania come la comunione[196], come un incontro, come la conversazione con Cristo. Infatti, la teofania capita da Simeone come la comunione fa parte dell’incarnazione, è trinitaria e, la luce divina che permea ogni aspetto dell’essere di una persona, è vissuta ipostaticamente in comunione con Cristo, in una comunione mistica tra la persona umana e Dio, che porta alla trasformazione di tutta la persona.
Il presupposto importante sul quale si deve contare è che noi siamo qui sulla terra nel corpo corruttibile e quindi limitati. Il corpo oscura l’anima con i propri legami e limiti e noi non siamo ancora nel cielo. Ed è per questo motivo che qui sulla terra «nous n’avons pas pour le moment la capacité d’accueillir en nous la totalité de la gloire révélée (τὴν ἀποκαλυπτομένην δόξαν), mais en reflétant (τῆς δόξης ἐνοπτριζόμενοι) l’ineffable océan de gloire nous pensons n’en apercevoir qu’une goutte»[197]. Ma coloro che credono in Cristo possono essere aiutati da Lui già qui, e come chiamati a questo, possono già nel secolo presente cominciare il processo del suo riconoscimento e possono attingere alle primizie.
Il primo passo consiste nel riflettere, anche se in maniera oscura, come in uno specchio, la gloria di Dio[198] che pienamente si adempirà solo nel secolo futuro. Simeone constata il fatto, che se non si comincia ad ottenere già da qui le promesse[199], se non si comincia a partecipare[200] ai beni futuri già da qui, si rischia di non condividerli neanche di là, pur avendone le speranze[201].
Simeone sostiene che l’unione (ἕνωσιν) con Dio «si compie in maniera cosciente (ἐν γνώσει), completamente sensibile (αἰσθήσει), mentre si sperimenta (πείρᾳ) e si vede (ὁράσει)»[202], anche se Dio è invisibile e noi siamo visibili.
il monaco che sinceramente ha abbandonato il mondo e i suoi piaceri per avvicinarsi a Cristo, che ha sentito la chiamata e che è stato innalzato alle vette della contemplazione spirituale attraverso la pratica dei comandamenti, vede Dio faccia e faccia […], vede (βλέπει) la grazia dello Spirito circondarlo continuamente […], anzi Cristo stesso, […] conosce, dalla conoscenza dell’anima (ἐν γνώσει ψυχῆς ἐπίσταται), la grandezza della grazia ricevuta […]. Egli sta accanto a Dio conversando (διαλεγόμενος τῷ Θεῷ) come con un amico, confidando in Colui, che abita nella luce inaccessibile.[203]
Avere una coscienza profonda, per Simeone significa avere un’unione intima con Dio, nella quale viene comunicata una coscienza nuova e più abbondante, che abbraccia tutti i livelli dei sensi.
il est agréable au goût (γλυκαίνει τὸ γευστικόν), parfumé à l’odorat (τὸ ὀσφραντικὸν εὐωδιάζει), touché (ψηλαφᾶται), connu (γνωρίζεται); il parle (λαλεῖ) et il est exprimé par la parole (λαλεῖται), il connaît (γινώσκει), il est reconnu (ἐπιγινώσκεται), il est conçu comme connaissant (ὅτι γινώσκει νοεῖται) . Car celui qui est connu (γινωσκόμενος) de Dieu sait qu’il est connu (γινώσκεται) et celui qui voit (ὁρῶν) Dieu sait que Dieu le voit (ὁρᾷ); mais celui qui ne voit pas (μὴ ὁρῶν) Dieu ne sait pas (οὐκ οἶδεν) que Dieu le voit (ὁρᾷ), pas plus d’ailleurs qu’il ne voit (οὐδὲ ὁρᾷ), même s’il regarde tout et que rien ne lui échappe.[204]
Ecco la descrizione di due persone: l’una con i sensi tutti uniti e raccolti, percependo Dio in tutti i livelli mentre Dio si fa vedere e l’altra che non vede Dio e non sa, non è consapevole che Dio lo vede, anche se alla sua osservazione esterna nulla sfugge. Abbiamo qui praticamente la descrizione di un caso della cecità spirituale della persona. Allora la visione non è nient’altro che una conoscenza cosciente e la divinizzazione[205] appare come la conseguenza principale della visione di Dio[206].
Coloro che non credono che l’uomo è chiamato a vedere Dio e così rimangono nelle tenebre, sono secondo lui morti secondo Simeone ed egli in proposito pone delle domande retoriche:
Mais si tu n’as pas mérité de voir (ὅλως) le moins du monde le Christ lui-même, qu’as-tu donc à t’imaginer que tu vis? Qu’as-tu à croire que tu sers (δοθλεύειν) celui que tu n’as encore jamais vu (τεθέασαι)[207]? Ne l’ayant jamais vu (θεασάμενος) et n’ayant jamais mérité d’entendre sa voix, d’où te sera enseignée sa sainte volonté aussi agréable que parfaite? Si tu dis que tu vas l’apprendre des saintes Ecritures, je te pose la question : Comment, toi qui es entièrement mort et gisant dans les ténèbres, pourras-tu l’entendre (ἀκοῦσαι)[208] ou l’accomplir, afin de mériter de vivre et de voir Dieu ?[209]
Simeone si oppone fortemente a quelli che non credono in ciò e ritiene questo una grande e profonda incredulità (ἀπιστίας) e ignoranza (ἀγνοίας)[210]. Ne sono i segni la morte e la cecità spirituale, anche se dall’altra parte è anche vero che Dio è inconoscibile, perché Lui nelle sue tre persone è «sans commencement, incréé, incompréhensible, inexplorable, invisible ; que l’intelligence ne peut le saisir, ni la parole l’exprimer»[211]. Ma comunque Simeone conferma, che la conoscenza stessa (γνώσεως), ci è data da Dio nella misura della nostra fede (πίστεως), e la fede conferma ciò che noi conosciamo, rimanendo indipendente da essa.
Egli supplica i suoi ascoltatori di credere in ciò che lui insegna e che chiama via della salvezza (τὴν ὁδὸν τῆς σωτηρίας).
Crois (Πίστευσον) donc d’abord de toute ton âme (ἐξ ὅλης ψυχῆς) que tout ce que nous avons dit selon les Écritures divines[212] et inspirées de Dieu est vrai et que tel est l’état auquel doit parvenir tout homme qui croit au Fils de Dieu, puisqu’il nous a donné le pouvoir de devenir fils (υἱούς) de Dieu ; et si nous le voulons, rien ne nous en empêche, car c’est pour cela qu’est survenu toute l’Économie (οἰκονομία)[213], avec la condescendance (συγκατάβασις) du Fils de Dieu, c’est pour nous rendre, en vertu de la foi (πίστεως) en lui et de l’observation (μετόχους) de ses commandements, participants (ἀπεργάσηται) de son royaume et de sa divinité.[214]
La fede secondo Simeone mostra frutti molto concreti perciò credere porta a quello che gli occhi non hanno visto e gli orecchi non hanno udito e che il Signore ha preparato per coloro che lo amano, come dice San Paolo (1Cor 2, 9). Cioè non a una realtà terrestre, a un luogo, a un abisso oppure a un’estremità del mare o della terra, come precisa, ma ai beni che sono riservati al cielo[215] .
D’altra parte, questi beni celesti sono «visibili», «toccabili» e «mangiabili» – egli li chiama il corpo e il sangue di Cristo, che ogni giorno vediamo, a cui ci avviciniamo, li mangiamo e beviamo. Dunque si deve credere che oltre a questo non si può trovare niente di più alto e profondo: è un mistero prendere parte al quale si è invitati[216]. Nel credere, il monaco si unisce all’Invisibile dell’alto dei cieli che si comunica invisibilmente, e nello stesso tempo Egli si fa visibile sulla terra fino a poter comunicarle se stesso quando lo si mangia nell’Eucaristia[217]. Ecco il modo[218] con cui partecipare alla Divinità, per mezzo del Mistero dell’amore di Dio verso gli uomini.
Allora la vita eterna secondo le parole del Signore sta proprio nella fede in questi santi misteri e nella partecipazione ad essi. E coloro che hanno questa vita eterna, saranno risuscitati nell’ultimo giorno. Non è detto che gli altri saranno abbandonati nelle tombe, ma proprio «ceux qui ont la vie sont ressuscités par la Vie pour la vie éternelle et […] ceux qui restent sont ressuscités pour la mort éternelle qui est le châtiment»[219]. Possiamo affermare che secondo Simeone la partecipazione all’eucaristia fa parte della visione di Dio.
Ci sono altre vie per conoscere Dio. Per esempio una è la Parola di Dio. Chi ha sentito la Parola, attraverso la quale viene la conoscenza ed ha creduto in essa grazie alla fede è confermato nella propria certezza che colui al quale ha creduto per via dell’insegnamento (τῆς διδασκαλίας) della Parola è proprio Dio[220].
Non si tratta della sola Parola di Dio, e nemmeno di una conoscenza superficiale delle scritture o delle parole ivi contenute materialmente, senza che esse, cioè le scritture e le parole stesse sono illuminate dalla grazia dello Spirito Santo[221], perché così sarebbero parole morte.
Oltre la Parola, Simeone riconosce gli altri segni (πολυτρόπον σημείων), attraverso i quali può venire la conoscenza di Dio e crescere la fede fino ad elevarsi verso l’amore di Dio. Questo avviene «par énigmes (αἰνιγμάτων), par miroirs (ἐσόπτρων), par pouvoirs mystiques et ineffables (μυστικῶν καὶ ἀνεκφράστων ἐνεργειῶν), par révélations divines (θείων ἀποκαλύψεων), par illuminations voilées (ἐλλάμψεων ἀμυδρῶν), par contemplation des raison de la création (θεορίας τῶν λόγων τῆς κτίσεως)»[222].
Qui c’è il rischio di pensare e pretendere che la conoscenza appartenga soltanto a coloro, ai quali è stato affidato l’ufficio di «legare e di sciogliere»[223], cioè ai sacerdoti, pontefici e superiori, e che pur avendo la conoscenza, dovrebbero condurre alla luce e non lo fanno per mancanza della loro fede, e rimangono così nella loro morte spirituale causata dalla loro incredulità[224], e ancora di più, perché c’è il rischio che così vi portino anche gli altri.
Infatti vi è un altro, lo Spirito Santo, a cui ci si dovrebbe rivolgere e che ha la chiave della conoscenza; lo Spirito Santo ci può dare questa grazia, la grazia della illuminazione, dell’esperienza mistica[225], della visione, che alla fine ha la forza di trasformare la persona. È proprio la sua grazia, dataci sulla base della fede che
produce in noi la conoscenza piena (ἐπίγνωσις) mediante l’illuminazione (διἀ φωτισμοῦ) e apre (διανοίγουσα) il nostro intelletto (νοῦν), chiuso e velato, con molte parabole (παραβολῶν), enigmi (αἰνιγμάτων) e anche esplicite dimostrazioni (φανερῶν ἀποδείξεων). […] La porta è il Figlio, la chiave della porta è lo Spirito Santo […], perché mediante lui e in lui, prima di tutto, noi risplendiamo nel nostro intelletto (τὸν νοῦν ἐλλαμπόμενα) e, purificati (καθαιρόμενοι), siamo illuminati dalla luce della conoscenza (φωτιζόμεθα φῶς γνώσεως), siamo battezzati (βαπτιζόμεθά) dall’alto, rigenerati (ἀναγεννώμεθα) e chiamati (χρηματίζομεν) figli di Dio (τέκνα Θεοῦ) […], è lui dunque che ci mostra la porta perché è la luce (φῶς), e la porta ci insegna che anche colui che abita nella casa è la luce inaccessibile.[226]
A Simeone non interessa la conoscenza naturale di Dio, ma piuttosto un’altra conoscenza: la conoscenza della fede che porta alla visione di Dio e che conduce alla percezione della sua presenza nell’anima[227].
1.5.1. La luce
I mistici orientali parlavano spesso della luce come di una specie di percezione di Dio[228], prendendo in considerazione il fatto della vita liturgica quotidiana tenuta nell’ambiente del monachesimo bizantino, il tema della luce era uno dei temi più suggestivi per illustrare la natura trasfigurante della vita di un cristiano in Cristo[229]. San Simeone pur essendo monaco è un autore mistico[230] estatico[231]. Il tema della luce anche in Simeone ha una grande importanza[232] perché ciò che ha la principale forza trasformativa della persona del monaco[233] nella visione di Dio, è proprio la luce di Dio che è visibile[234].
Nell’esperienza personale[235] di Simeone, che è un’esperienza fondamentalmente spirituale, Dio è luce e la sua visione e conoscenza sono luce[236].
Qui non parliamo dello sforzo umano dei monaci al quale Simeone da buon monaco, incoraggia e dice: «l’uomo spirituale non arriva infatti, ad accogliere improvvisamente lo Spirito Santo intero e a diventare impassibile; ci arriva solo quando abbia effettuato (διαπράξηται) tutto quello che è nelle sue possibilità […].»[237].
Parlando della luce, non si tratta per Simeone di una qualsiasi luce che abbia la forza di trasformare, ma della luce che è divina.
la tua luce, sei tu stesso, il mio Dio[238]. […], un essere solo […], Uno che si fa vedere (φαντασθέν), risplende (λάμψαν), illumina (καταυγάσαν), viene partecipato (μεταληφθέν) e trasmesso (μεταδοθέν), […] sono molti gli appellativi con i quali noi lo chiamiamo: luce (φῶς), pace (εἰρήνη), gioia (χαρά).[239]
La luce è così il luogo, in cui il Dio apofatico, che è al di là della nostra mente, con le sue opere impensabili e inesprimibili, la gloria e la conoscenza di Dio, diventa catafatico e viene all’incontro dell’uomo. Dio manifestandosi «in una luce (ἐν φωτί) incomprensibile (ἀκατανοήτῳ), inaccessibile (ἀμηκάνῳ) e senza forma (ἀμόρφῳ) […]», tuttavia «si mostra apertamente (ἐμφανῶς δείκνυται) e si fa conoscere in modo del tutto consapevole (πάνυ γνωστῶς); e l’Invisibile si fa vedere con molta chiarezza (ὁρᾶται τρανῶς), invisibilmente parla e ascolta»[240].
Simeone percepisce la luce come una «grazia nella quale Dio si fa conoscere a quelli che entrano in unione con lui trascendendo i limiti dell’essere creato»[241]. La luce è un dono di Dio che si comunica alla creazione nella forma dello splendore della luce, e non è una allucinazione né una astrazione vaga[242], ma una risposta di Dio a un appello dell’uomo che cerca la luce.
Simeone non espone una dottrina per fare una teologia. I suoi scritti perciò sono pieni della sua esperienza personale di fede e in essi egli stesso narra della visione in cui Dio luce si fa vedere liberamente[243]. «Come dunque più volte ti mostrasti, più volte ancora poi ti nascondevi da me; e non vedevo più nulla, pur vedendo […] gli splendori e il chiarore del tuo volto […]; ma incapace del tutto di trattenerli, mi ricordavo dove una volta ti avevo visto lassù e, cercavo con lacrime di vederti di nuovo.»[244]
Veramente, Simeone sulla «grandezza dell’amore che Dio ha per gli uomini» dà una testimonianza bellissima della libertà di Dio nei confronti della persona umana, quando Dio stesso viene e si allontana, si manifesta e poi si nasconde, e come la persona umana, in questo caso Simeone stesso, lo cerchi instancabilmente facendo tutto il possibile per re-incontrarlo di nuovo[245].
Dalla Catechesi 16 è chiaro che la luce (τὸ φῶς) è un modo delle «divine illuminazioni[246] inviate dal cielo a coloro che lottano (πολλάκις θείας οὐρανόθεν γινομένας ἐν τοῖς ἀγωνιζομένοις ἐλλάμψεις)»[247]. Per mezzo delle illuminazioni (ἐλλάμψεις) che il Signore si fa percepire nella visione. Lo spiega il suo padre spirituale dopo una «visione». Simeone chiede chiarimento sulle operazioni (ἐνεργείας)[248] di ciò che il suo padre spirituale ha veduto, e ottiene la risposta che quell’incontro, quando avviene, gli conduce alla gioia. Ma quando il Signore si nasconde porta un dolore che ferisce. Se si fa di nuovo vicino si sale ai cieli, e allora Simeone dà questa testimonianza: «la luce mi riveste, mi appare come un astro e nessuno la può contenere; lampeggia come il sole e io scorgo la creazione racchiusa in essa; mi mostra tutto ciò che è in essa e mi comanda di rispettare i miei limiti»[249].
Simeone definisce la luce come: «delizia, gioia serenità e pace, compassione incalcolabile, abisso di clemenza; è l’invisibile, che viene visto, l’irraggiungibile che viene raggiunto, ciò che non si può toccare e non si può palpare, che viene saldamente posseduto nella mia mente»[250].
Simeone accentua proprio la forza trasformatrice della luce visibile, l’aiuto nel progredire nelle virtù. La luce, che appare all’inizio per un tempo breve proveniente da essa e poi sempre più spesso[251], sempre «si contrae e espelle dal cuore una passione» e l’uomo non può «vincere le passioni (τῶν παθῶν), se questa luce non gli si presenta a soccorrerlo» ed ancora, «non le espelle tutte d’un colpo solo».[252] Essa non caccia dal cuore tutte le passioni ad un tratto, ma una dopo altra.
Nel titolo dell’Inno 18, Simeone identifica la luce dello Spirito Santo (τοῦ φωτὸς τοῦ Ἁγίου Πνεύματος), con l’attività dell’amore (τῶν ἐνεργειῶν τῆς ἀγάπης). Poiché la luce viene identificata con l’attività dell’amore, Simeone nomina in dipendenza da ciò ogni azione dell’amore con diversi nomi[253].
Nel primo gruppo si potrebbero raccogliere nomi come «mano», «occhio», «bocca santissima», «potenza», «gloria». Possiamo dire che essi esprimono l’attività strumentale della luce, un’azione, una capacità della luce.
Nel secondo gruppo egli raccoglie i nomi e aggettivi della luce: essa è «bella», la percepisce come «volto bello», e non la si può penetrare fino in fondo come nel «sole[254] impenetrabile», che irradia sempre indipendentemente da chi la riceve, senza cessare mai come «stella, che risplende perennemente». Questi nomi caratterizzano la sorgente stessa della luce, cioè il Signore.
Alla fine nomina gli effetti che la luce provoca nell’anima e con i quali si attua una trasformazione interna[255] a vari livelli della vita spirituale:
a. La luce ha il suo ruolo importantissimo nel combattimento spirituale contro i vizi e contro i pensieri malvagi perché è la luce che «si oppone alla sofferenza», «respinge l’invidia», «distrugge completamente la gelosia di Satana», «all’inizio dissolve, poi assottiglia purificando e alla fine scaccia i ragionamenti e comprime i movimenti», poi «spegne la collera e il ribollimento del cuore», «non permette che ci si adiri», aiuta a «non subire un’agitazione completa», fa fuggire «tutte le passioni» e quando tutti questi mali stanno circondando la persona e sembra che la possano divorare, la luce avvolge e «porta fuori» da tutto questo.
b. La luce ha anche una forza costruttiva, perché essa «insegna ad umiliarsi», «non permette di dissiparsi» e «di andare in vagabondaggio», «nutre», «guarisce la sete», «fornisce vigore», la sua presenza «aiuta a separarsi dal mondo» e «immette la dimenticanza di tutte le molestie della vita», fa che uno «non tema la morte», poi ancora alla fine «chiama al silenzio» e «all’odio di qualsiasi gloria».
c. La cima più alta che la luce aiuta a raggiungere soprattutto a coloro che sono stati per essa introdotti nell’umiltà, e sono diventati umili, è che la luce non si separa più da loro, «illumina», nel loro cuore «interpreta le Sacre Scritture e la conoscenza di esse», «insegna i misteri», «mostra come uno era strappato dal mondo» e comanda «di avere la compassione di tutti che sono nel mondo».
Simeone sottolinea che durante la «visione» non si tratta della trasformazione dell’oggetto contemplato, cioè Dio stesso, che muti o si trasformi, ma della purificazione del soggetto che contempla.
Come infatti accade a un cieco che a poco a poco ricupera la vista e discerne la fisionomia dell’uomo, e quale essa sia, da ciò che a poco a poco viene esaminando – e non è la fisionomia che si trasforma o muta nella visione, bensì, piuttosto, è la visuale dei suoi occhi che, purificata, vede quale egli è, come se l’immagine di lui si imprimesse tutta nella sua facoltà visiva, e la attraversasse modellandosi e come imprimendosi nella tavola dell’intelletto e della memoria dell’anima -, così anche tu ti sei fatto vedere, dopo avere interamente purificato il mio intelletto e avergli dato chiarezza con la luce dello Spirito Santo.[256]
L’anima è quella che si apre all’irradiazione della luce di Dio e si purifica proprio per mezzo della luce dello Spirito Santo.
C’è un rimedio, una strada attraverso la quale si può passare dalle tenebre del proprio peccato alla visione di Dio stesso, cioè all’incontro e all’unione con Cristo – la vera luce (τὸ ἀληθινὸν φῶς), a colui che è disceso nel mondo. Sono necessarie due cose: la prima richiede di umiliarsi (ταπεινώθητι ἐνώπιον τοῦ Θεοῦ) e non giustificarsi, e la seconda, di chiedere a Dio «envoie-moi un homme qui te connaisse (γινώσκοντά σε),» cioè uno che ha l’esperienza della vera conoscenza cosciente di Dio, «afin qu’en le servant et en me soumettant à lui de toutes mes forces, comme à toi, et en accomplissant ta volonté dans la sienne, je te plaise, à toi, le seul Dieu, et que je mérite ton royaume, moi aussi, pécheur»[257].
Allora è importantissimo sottomettersi alla persona che conosce Dio e ha l’esperienza della visione ed è mandata da Dio e nello stesso tempo è accolta con la fede come da Dio, perché Dio stesso, colui che è la vera luce, vuole che noi Lo vediamo. Risulta che per ottenere la vera visione ci vuole un mediatore (μεσίτης),un difensore(πρεσβευτής) e un pastore (ποιμήν)[258] in una persona, che possa accompagnare e guidare[259] sulla giusta strada verso la vita e la luce, per il motivo che egli stesso è sulla giusta strada, ha la vita e conosce la Luce.
Simeone incoraggia e parla della luce non perché si tratta solamente di un ideale teologico bello e piacevole, ma perché egli stesso è consapevole di queste realtà e le sta testimoniando con la propria vita davanti ai suoi confratelli e non solo.
La luce già risplende nella tenebra, nella notte e nel giorno, dentro e fuori – nei nostri cuori; e fuori, nel nostro intelletto –, e ci avvolge nel suo splendore senza tramonto (ἀνεσπέρως), senza mutamento (ἀτρέπτως), senza cambiamento (ἀναλλοιώτως), senza forma (ἀσχηματίστως): parlante (λαλοῦν), operante (ἐνεργοῦν), viva (ζῶν) e vivificante (ζωοποιοῦν) e trasformante (ἀπεργαζόμενον) in luce coloro che sono illuminati. Noi testimoniamo (μαρτυροῦμεν) che Dio è luce, e coloro che sono stati degni di vederlo (ἰδεῖν), tutti l’hanno contemplato (ἐθεάσαντο) come luce; poiché davanti a lui cammina la luce della sua gloria (τὸ φῶς τῆς δόξης αὐτοῦ) ed è impossibile che egli appaia senza luce; e coloro che non hanno visto (μὴ ἰδόντες) la sua luce non hanno visto neppure lui, poiché egli è la luce; e coloro che non hanno ricevuto (μὴ λαβόντες) la luce non hanno ancora ricevuto la grazia (τὴν χάριν), poiché coloro che hanno ricevuto la grazia hanno ricevuto la luce di Dio e Dio, come ha detto la Luce stessa, il Cristo: “Abiterò (Ἐνοικήσω) e camminerò (ἐμπεριπατήσω) in essi” (2Cor 6, 16).[260]
L’esperienza della luce divina è per Simeone un’esperienza di una presenza e di partecipazione personale[261]. Egli dimostra di essere vero teologo e maestro proprio per il fatto che i misteri di cui parla, li conosce per esperienza secondo la tradizione[262].
Ma ci sono le forze delle tenebre che attaccano. Sull’esempio ricavato dalla sua propria gioventù, cioè quando era ancora giovane Giorgio[263], fa una esortazione sottolineando che anche se uno ha ottenuto questa grazia di vedere Dio, della «meravigliosa trasformazione», deve essere pronto ad affrontare «le continue tentazioni di questa vita», che pian piano, a causa della dimenticanza portano l’oscurità e sicuramente anche le cadute, che ne possono derivare. Per affrontare bene le tentazioni, e per non perdere questa grazia, Simeone consiglia di uscire dal mondo intero e cercare Dio[264], nella solitudine, nella fatica e con tanti sforzi ascetici[265]. Sì, Dio misericordioso potrà di nuovo dare la grazia della visione, ma può darsi che non sarà più così splendente come in precedenza, anzi sarà possibile vedere soltanto «un piccolo raggio di quella dolcissima e divina luce, come in modo oscuro»[266].
La visione per mezzo della luce divina aiuta il monaco a fare un processo di trasformazione interna in questa vita terrena, dal possedere Dio inconsapevolmente (ἀγνώστως), al possedere Dio consapevolmente (γνωστῶς), dove il primo significa la perdizione e il secondo la salvezza.
Simeone pronuncia ed interpreta a modo suo diciotto beatitudini – μακαρισμοί[267]. Dodici sono strettamente correlate con la luce – φῶς. Beati sono coloro che, «ricevono», «rivestono», «gustano», «riconoscono» e «accendono» in sé la luce, «vivono nella luce», «cercano di raggiungere la luce», «sono illuminati e trasformati dalla luce», «si avvicinano alla luce», «continuamente guardano» e «contemplano nelle loro preghiere la luce», e alla fine, beati sono coloro che «lasciano formare e produrre in sé la luce per illuminare il mondo». Le altre definiscono beati coloro «che contemplano Cristo corporalmente intellettualmente e spiritualmente», «che si nutrono di Lui», «che non sono certi della salvezza e combattono sulla terra», «che non dubitano del suo insegnamento», «che vedono brillare il proprio indumento come se fosse Cristo», «che si trovano durante la preghiera nella presenza di Dio», «lo vedono e da Lui sono visti».
È bello che Simeone chiami μακάριοι quelli, che hanno ricevuto Cristo – luce, «car ils sont devenus fils de lumière et du Jour».
[1] Cf. I. Hausherr, «Saint Théodore Studite»; J. Leroy, «Saint Théodore Studite (756-826)»; D. Krausmuller, «The Vitae B, C, and A of Theodore the Stoudite. Their Interrelation, Dates, Authors and Significance for the History of the Stoudios Monastery in the Tenth Century».
[2] Per la storia, topografia e descrizione dell’edificio rimasto fino ad oggi del famoso monastero di San Giovani Battista di Stoudios: Cf. R. Janin, «La région occidentale de Constantinople. Etude de topographie», 98-101; J. Ract, Lieux Chrétiens d’Istanbul. Introduction de Mgr. Louis Pelâtre. Prologue et notice historique de Rinaldo Marmara, 72-75. Secondo le argomentazioni di Delehaye, dal punto di visto grammatico è giusto usare per questo monastero il nome Studius o Stoudios, oppure monastero degli Studiti. Il nome Stoudion oppure Studion sono forme errate e artificiali.Cf. H. Delehaye, «Stoudion – Stoudios», 65. Nel testo del nostro lavoro perciò anche noi usiamo nome Stoudios oppure monastero degli Studiti, tranne nei testi delle citazioni e degli titoli della letteratura da noi usata, dove lasciamo la forma originale.
[3] Cf. J. Leroy, «L’influence de saint Basile sur la réforme studite d’après les Catéchèses».
[4] La problematica del monachesimo studita nell’Impero Bizantino: Cf. J. Leroy, «La Réforme studite»; E. Patlagean, «Les Stoudites, l’empereur et Rome: figure byzantine d’un monachisme réformateur»; T. Špidlik, «Il monachesimo bizantino sul crocevia fra lo studitismo e l’esicasmo»; E. Patlagean, «Les Stoudites, l’empereur et Rome: figure byzantine d’un monachisme réformateur»; O. Delouis, «L’igumeno come padre spirituale nella tradizione studita»; J. Gouillard, La vie religieuse à Byzance.
[5] Cf. Vie, 4; 11-21.
[6] Simeone lo Studita oppure Simeone il Pio – Eulabès (917c.-986c.), monaco dello Stoudios, essenzialmente conosciuto come padre spirituale di San Simeone il Nuovo Teologo, con un grande influsso spirituale su di lui e sulla sua personalità fin dalla sua giovinezza. Certe nozioni del Nuovo Teologo stesso e del suo biografo Niceta Stetato sembrano indicare che lo Studita era il santo tipo «folle di Cristo» – uno che serve Dio sotto la maschera di follia, anche se né Simeone, né Niceta lo chiamano mai come σαλός – folle. Il Nuovo Teologo dopo la morte dello Studita, lo onorò come santo. Questo fatto ha provocato tanta opposizione e specialmente da Stefano di Nicomedia, rappresentante dei cerchi ufficiali della chiesa di Costantinopoli, che era convinto che lo Studita era un peccatore – ἁμαρτωλός e perciò era impossibile venerarlo come un santo. Per Simeone il Nuovo Teologo Simeone il Pio era considerato il grande santo e lo onorava come tale fino alla fine della sua vita.
[7] Santo, martire di Cesarea di Cappadocia. Il suo culto era diffuso anche in Costantinopoli. In Costantinopoli a San Mama erano dedicate due basiliche, una chiesa e il monastero da dove nel 1204 viene asportato dai Latini il capo del santo, finito poi a Langres in Francia. Cf. B. Cignitti, «Mama (Mamante, Mammas, Mammete)», 592-612.
[8] Xylokerkos oggi Belgrad Kapisi era la seconda porta militare del muro dell’imperatore Teodosio e si trovava a nord della Porta d’Oro. Nelle sue vicinanze vi erano due quartieri quello di Sigma – vicino al luogo del martirio dei due martiri Karpos e Papylos – e il quartiere di Stoudios.In questi quartieri si trovavano i monasteri famosi come Prodrome di Stoudios, Sant’Andrea in Krisei, d’Aristinè, Santa Maria Péribleptos. La chiesa e il monastero di San Mama, fondato probabilmente nel VI sec., si trovava a est della porta Xylokerkos e non distava da essapiù di cinquecento metri mentre a nord-ovest del monastero di San Giovani Battista di Stoudios. Il monastero era diventato famoso per San Simeone il Nuovo Teologo che vi era igumeno dal 977 al 1005. Dopo quel periodo, nella metà del XII sec., la comunità ha avuto di nuovo un periodo di decadenza per poi essere rinnovata da un laico Georges Kapadokès che ha messo come igumeno Atanasio, incaricato di redigere typikon, il cui testo ci è noto. Dopo il 1399 non si parla più di questo monastero. Cf. R. Janin, «La région occidentale de Constantinople. Etude de topographie», 102; R. Janin, Constantinople byzantine. Développement urbain et répertoire topographique. 274; R. Janin, Le Siège de Constantinople et le Patriarcat oecuménique : les églises et les monastères, III, 314-319.
[9] Cf. L. Bouyer, La spiritualità Bizantina e Ortodossa, 662.
[10] Nella tradizione cristiana il significato della parola greca ὁ μοναχός e la parola latina monachus hanno vari livelli. Il primo e fondamentale significherebbe colui, che vive solo – eremita o anacoreta; il secondo, colui che ha rinunciato alla propria famiglia oppure al matrimonio o al proprio bene. Queste persone potevano formare piccole comunità nei villaggi, riconosciuti nella chiesa locale. Il terzo è, colui che vive in unione con gli altri – cenobio. Alla fine il monaco è colui, che è unito in se stesso e così realizza la sua unità interiore con Dio. Cf. P. Miquel, «Signification et motivations du monachisme», 1549-1550; cf. PGL, 878-879, A, B1-3. Il significato della parola latina monachus nel contesto del monachesimo latino è bene spiegato da Leclerq: Cf. J. Leclercq, Études sur le vocabulaire monastique du moyen âge, 7-17. San Basilio definisce monaco con termini biblici dicendo, che monaco è il cristiano, il discepolo, che segue il Cristo. Sant’Agostino, anche lui esprime come Basilio la continuità della vita monastica con quella battesimale. Cassiano per esempio identifica la vita monastica con la vita contemplativa. Cf. U. Neri, Fondatori del monachesimo, 54, 149. Pseudo-Dionigi nella Gerarchia ecclesiastica 6, 3, parla dei monaci come di quelli che vivono una vita indivisa e unitaria. Cf. Ps.-Dionigi Areopagita, Tutte le opere, 223-226.
[11] Hymn., 3, 1-7; cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 32.
[12] Gli scrittori cristiani distinguono due «mondi»: uno che è il sito naturale della nostra esistenza, che si deve amare, e l’altro che è nemico di Dio e che bisogna fuggire. Negli scritti ascetici c’è l’opposizione tra i due «mondi», il mondo presente e quello futuro, il mondo visibile e invisibile, la vita nel mondo e la vita solitaria, le opinioni del mondo e la vera gnosi. Il senso teologico della fuga dal mondo nel senso monastico, non nel senso materiale della parola ma nel suo senso spirituale, presuppone la rinuncia a tutto quanto potrebbe ritardare l’ascesa spirituale e ciò che potrebbe essere contrario alla pietà. Il precursore di essa potrebbe essere considerato Origene. Cf. C. Moreschini, «Mondo», 3333-3334; cf. T. Špidlik – M. Tenace – R. Čemus, Il monachesimo secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, 28. Secondo il nostro parere qui si tratta del senso spirituale della parola «mondo», cioè le cose e gli interessi corporali e della vita. Cf. PGL, 771, C7a-b.
[13] Cf. A.G. Keselopoulos, Man and the Environment, 129.
[14] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 152; cf. Hymn., 27, 27-36.
[15] Se il monaco cerca di isolarsi dai rapporti con gli uomini, non lo fa per stare con sé, ma per essere solo con Dio. Cf. J. Leclercq, Études sur le vocabulaire monastique du moyen âge, 29.
[16] In tutto l’Inno 27 possiamo notare che Simeone fa un gioco di parole con la stessa radice: μοναχός (monaco), μόνος (uno che sta da solo), μονάζω (vivere da solo, a parte), μονάζων (quello che vive da solo), μεμονωμένος (quello che si è distacatto), μονάς (l’unità, il singolo, l’uno), μοναστήριον (monastero, gruppo delle celle), μοναστικός (vita solitaria), μοναχικός (del monaco, monastico). Cf. PGL, 876-878, 883.
[17] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 152; cf. Hymn., 27, 21-25.
[18] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 151; cf. Hymn., 27, 9-19.
[19] Di solito si sostiene che verbo φιλεῖν originariamente esprima un tipo di amore legato all’amicizia, un affetto puro, semplice ma reciproco, un «voler bene» di simpatia, privo d’impulsività e di forti emozioni associate al verbo ἐράω. Cf. C. Spicq, Theological Lexicon of the New Testament, I, 10-12.
[20] Cf. PGL, 1477, 1f-g.
[21] La «cella» – κελλίον, è una piccola camera, «cellula» – κέλλα del monaco in un monastero. Cf. L. Clugnet, Dictionnaire grec-français des noms liturgiques en usage dans l’Église grecque, 80. Nei tempi antichi, cioè nel IV-V secolo, la parola «cellula», «cella», κέλλα, disegnava alloggio di un solitario, eremita, recluso. Inizialmente si chiamava μοναστήριον e significava dimora di μοναχός – uno che abitava da solo. Più tardi la parola «cella», «cellula» si adopera per descrivere una camera, oppure un insieme di camere del monastero, che erano dedicate ad un uso speciale, di solito per i candidati oppure per gli ospiti. Alla fine prende il significato di una camera assegnata a un monaco che viveva nel cenobio. Spesso, nel linguaggio ascetico e monastico, la «cella» era un segno, che esprimeva la stabilità del monaco. Gli autori ascetici come Evagrio e Cassiano, parlano del disgusto della cella, che era spesso generato nell’eremita a motivo dell’accidia nell’ora sesta dal daemon meridianus. Le «celle» si chiamavano anche piccoli monasteri che contavano sei monaci. Cf. L. Gougaud, «Cellule», 396-397.
[22] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 152; cf. Hymn., 27, 39-49.
[23] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 152-153; Hymn., 27, 57-64.
[24] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 32; cf. Hymn., 3, 11-14.
[25] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 153; cf. Hymn., 27, 70-79.
[26] Da ἐρημικός – solitario. La vita solitaria eremiticafa parte integrante della tradizione monastica generale dell’Oriente. L’aspetto principale della spiritualità eremitica è l’hesichia. Cf. C. Lialine, «Érémitisme»; cf. I. Hausherr, «L’hésychasme».
[27] Da κοινός e βίος, cioè in commune viventes secondo Isidoro. La vita cenobitica si presenta strettamente collegata alla vita ascetica. «Cenobio, non indica semplicemente un luogo fisico di vita monastica, come per esempio il termine monasterium che significa semplicemente abitazione dei monaci e anche di un solo monaco […], ma designa un tipo e un modo di particolare ascesi monastica insieme ad altri che coabitano nello stesso luogo. I cenobi sono dunque coloro che professano la forma più alta e completa e migliore (de optimo genere monachorum) di vita monastica e si addestrano in quelle palestre che sono i cenobi per tendere ai fastigi della disciplina anacoretica (Cass., Conl. 18, 11) in un realismo e in una concretezza di virtù a tutta prova.» Cf. M.G. Bianco, «Cenobio, cenobita», 985-986.
[28] Cap., 3, 65.
[29] Cap., 3, 67.
[30] Cap., 3, 67.
[31] L’uomo da una parte, ha una parentela con il Verbo (Λόγος) in tanto quanto possiede la ragione (λόγος). L’anima è così una immagine razionale del Verbo con la quale può partecipare al suo Creatore. Dall’altra parte l’uomo è all’immagine di Dio in quanto possiede un’anima intelligente e ragionevole creata attraverso l’intelligenza e la ragione divina. Ci sono tre realtà: l’anima, l’intelligenza e la ragione, che sono tra di loro consustanziali e immanenti all’immagine della Trinità. Cf. B. Fraigneau-Julien, Les sens spirituels, 122-124.
[32] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 314-315; cf. Hymn., 57, 325-344. Simeone parlando del vestito, con il quale si vestono i monaci e così mostrano al di fuori a chi appartengono, sottolinea che è necessario anche adornare l’uomo interiore con il vestito dello Spirito Santo, mediante la penitenza – tunica luminosa, e così integralmente con l’anima e con il corpo sacrificarsi a Dio. Cf. Cat., 9, 334-336.
[33] La parola ἀναισθησία secondo Lampe generalmente significa la mancanza di sensibilità, in modo più specificato la mancanza di partecipazione, l’ottusità – mentale, morale oppure spirituale –, e in senso positivo, la libertà dalla sensazione, il distacco. Cf. PGL, 104. L’insensibilità nel senso positivo è usata per esempio da Climaco: Cf. Giovanni Climaco, La scala, 4, 19; come anche da Evagrio nella Or., 120. Cf. I. Hausherr, Les leçons d’un contemplatif. Le Traité de l’Oraison d’Évagre le Pontique, 153-154.
[34] Cf. Hymn., 19, 33-35, 89-91, 23-27.
[35] Cf. P. Miquel, Lessico del deserto, 127. Dalla vita di San Simeone sappiamo che ancora prima della sua entrata nel monastero di Stoudios, era formato dalle opere dei Padri. Una di quelle che ha avuto grande influsso su di lui era certamente La scala di Climaco, e soprattutto il discorso 17, sull’ ἀναισθησία, il titolo del quale «ἀναισθησία ἐστὶ νέκρωσις ψυχῆς καὶ θάνατος νοὸς πρὸ θανάτου σώματος» è riportato dal suo biografo. Cf. Vie, 6. La traduzione italiana: «l’insensibilità che è necrosi dell’anima e morte della mente prima della morte del corpo». Cf. Giovanni Climaco, La scala, 17.
[36] Cf. Cap., 2, 4.
[37] Cf. P. Miquel, Lessico del deserto, 130.
[38] Cf. Hymn., 26, 15-19.
[39] Hymn., 41, 257-259.
[40] Cf. Éth., 6, 65-100; cf. Ibid., 6, 454-480; 11; cf. Cat., 28, 1-80; Simeone si è formato questa concezione a partire da 2Cor4, 10. L’autore insiste sulla morte vivificante dell’uomo e delle sue passioni e dei suoi desideri per il motivo che quelli che lo ascoltavano non credevano alla possibilità di arrivare in questa vita terrestre all’apatheia perfetta. Cf. B. Fraigneau-Julien, Les sens spirituels, 137; cf. I. Hausherr, «Noms du Christ et voies d’oraison», 209; cf. Diadoco di Fotica, Perf., 25; 29.
[41] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 420; cf. Cat., 28, 37-38.
[42] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 236; cf. Cat., 8, 23-27.
[43] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 194-195; cf. Cat., 13, 48-55.
[44] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 134; cf. Cat., 28, 50-60.
[45] Simeone il Nuovo Teologo, La visione della luce, 180-181; Cap., 3, 68.
[46] Cap., 2, 7.
[47] Cf. A.G. Keselopoulos, Man and the Environment, 137.
[48] Cf. Cap., 3, 69.
[49] Più significativo qui è il concetto del «mondo» di San Basilio il Grande, rigoroso nella sua rinuncia al mondo e fermo nella sua devozione alla Chiesa. Egli ha avuto un grande influsso sia nell’occidente sia nell’oriente cristiano. «Lui autorizza l’uso moderato del “mondo” per non essere abusati da esso», «i cristiani e i monaci possono usare “il mondo” in maniera pienamente legittima» e nella «misura della necessità», perché l’abuso sta nel «soddisfare i piaceri più che i bisogni». Basilio «cerca di caratterizzare il tempo presente e giudicare il “mondo” dal punto di vista escatologico, senza pretendere di condannare i secolari che si sono rifiutati di praticare certe esigenze ascetiche», per lui «le tentazioni del “mondo”, la malizia degli uomini e dei demoni giocano soltanto un ruolo secondario per i cristiani che lottano nel “mondo”», perché la base fondamentale per lui è, che il cristiano abbia una «doppia carità – verso Dio e il prossimo» e «concentrare la propria anima alla memoria di Dio». Il termine kosmos non porta in sé un contenuto «intrinsecamente malvagio», ma è «come un ordine delle cose naturali nelle mani libere di coloro che li possono usare anche contro la volontà di Dio». Il vero cristiano allora «cercherà una indipendenza spirituale» e la relazione del cristiano con il “mondo” è «essenzialmente una questione della disposizione interiore». Dall’altra parte, la «conoscenza del “mondo” creato conduce verso il Creatore e dunque porta in se una connotazione ascetica positiva». Basilio mette il “mondo” in parallelo con il peccato, e con la carne senza però farne una identificazione fra di loro. Il battessimo «è presentato come una professione del cristiano scritta, di morire al “mondo”, al peccato e alla carne». Il male di «kosmikos» – dell’essere mondano in senso negativo, risiede essenzialmente nell’amore di se stesso, cioè egoistico, nel cercare l’interesse proprio». Gribomont nel suo articolo alla fine afferma, che «Basilio distingue le diverse sfumature del termine kosmos, la rinuncia al “mondo” presenta come una cosa indispensabile per la mentalità e per la vita dei cristiani, ma la sua spiegazione si adatta sempre corrispondentemente alle circostanze particolari della vocazione dei suoi ascoltatori». Cf. J. Gribomont, «Le renoncement au monde dans l’idéal ascétique de saint Basile», 291-307, 471-473. Il concetto del «mondo» di Simeone corrisponde a quello di San Basilio Grande. Lo afferma Neri nella nota 196. Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 192.
[50] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 192; Cat., 5, 728-736.
[51] Cf. Cat., 5, 724-727.
[52] Ep., 3, 433. Come punto estremo della conoscenza γνῶσις nella vita spirituale, gli scrittori ascetici orientali mettono l’ἄγνοια cioè la non-conoscenza oppure l’ignoranza. Essa non sarebbe altro che l’inferno, l’ultimo fallimento della persona. «La vita spirituale – l’accrescimento della persona nella grazia – è sempre cosciente, poiché non-coscienza è segno del peccato, è il “sonno dell’anima”». Da qui allora la necessità dello stato di veglia. Cf. V. Lossky, La teologia mistica, 212.
[53] Ep., 4, 141-142.
[54] Cf. H.J.M. Turner, ed., The Epistles of St Symeon the New Theologian, 3, 471-486.
[55] Cf. Cat., 6, 272-273; Cap., 2, 8.
[56] Cf. Simeone lo Studita, Discours Ascétique, 1. La parola ἀναχώρησις porta in sé il significato di «ritirarsi dal mondo», oppure «la solitudine» nel senso d’un aiuto alla vita spirituale. Cf. PGL, 129, 3. San Giovanni Climaco nel suo primo scalino la definisce come l’«odio volontario e rinnegamento della natura allo scopo di ottenere ciò che è superiore alla natura, in vista del Regno futuro o per il gran numero dei peccati o per amore di Dio». Cf. Giovanni Climaco, La scala, 89; cf. Evagrio Pontico, Pr., 33.
[57] Cap., 1, 96; cf. Simeone il Nuovo Teologo, La visione della luce, 141.
[58] Cf. A. Golitzin, Life, Times and Theology, 60-70.
[59] Già Origene vede la sorgente e il principio di ogni peccato nei pensieri malvagi, ma proprio Evagrio è il testimone più importante per la spiegazione ascetico-monastica dei logismoi e nel suo Trattato pratico, 6, li sistematizza in otto pensieri malvagi: gastrimargia, porneia, philargyria, lupè, orgè, akèdia, kénodoxia, huperephaneia. Li identifica con otto demoni malvagi. In occidente è Giovanni Cassiano che trasmette le idee evagriane. Cf. H. Bacht, «Logismos», 955-958; cf. A. et C. Guillaumont, «Évagre le Pontique», 1731-1744. I logismoi di solito si traducono come «pensieri» ma più precisamente essi sono i semi delle passioni quei suggerimenti o impulsi che emergono dal subconscio e presto diventano ossessivi e nel senso ascetico distruggono il desiderio di base dell’essere umano. Perciò sono le forme d’idolatria, di che l’«idolatria di sé» che devia verso il nulla la capacità umana di trascendenza. Cf. O. Clément, The Roots of Christian Mysticism, 167. Simeone afferma la posizione della tradizione: i logismoi, poiché distruttivi, vanno confessati (Ep., 1; 2), però non a qualsiasi persona e formalmente (cf. Cat., 33, 80-89), ma prima si deve cercare e discernere il vero padre spirituale (Ep., 3) che ha l’esperienza personale e la conoscenza profonda di Dio (Ep., 4).
[60] Cf. Cat., 5, 751-752.
[61] Cf. Cat., 5, 816.
[62] Cf. Cat., 5, 758.
[63] Cf. Cat., 5, 820-1085; Cat., 29, 270-309; Ibid., 26; Ibid., 30, 107-121.
[64] Leroy afferma che le Catechesi di San Teodoro ai suoi monaci erano piuttosto i discorsi colloquiali da padre ai suoi figli spirituali, che trattati scientifici di teologia. Cf. J. Leroy, «La Vie quotidienne du moine studite», 34; Id., «La Réforme studite»; Id., «Saint Théodore Studite (759-826)».
[65] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 200; cf. Cat., 5, 1013-1015.
[66] Si tratta della solitudine, nel senso dell’isolamento dal mondo di una persona religiosa, di un monaco. Vivere come uno «straniero». Cf. PGL, 931, 2. Se partiamo dalle origini del monachesimo cioè quelle egiziane, ξενιτεία non è necessariamente una disposizione esteriore, ma è essenzialmente una disposizione piuttosto interiore, che il monaco dovrebbe conservare nella propria vita monastica. Si consiglia insieme al dovere della stabilità e la perseveranza nella cella. Diventa una sorta di peregrinatio in stabilitate conosciuto nel monachesimo latino medievale. La stessa concezione si può affermare anche per il monachesimo siriaco. Essenziale è che il monaco rimanga estraneo al mondo, in altre parole, si separi dal mondo, oppure ancora meglio, prenda la giusta distanza dal mondo, per non essere separati da Dio. Cf. A. Guillaumont, «Le dépaysement comme forme d’ascèse, dans le monachisme ancien», 55-56; cf. J. Leclercq, Aux sources de la spiritualité occidentale, 35-90.
[67] Cf. Cat., 4, 588-592.
[68] Cf. Cap., 3, 15.
[69] Cf. Cap., 3, 12-15.
[70] Cf. M.M. Jaoudi, God-consciousness in Simeon the New Theologian, 175.
[71] Cf. Hymn., 21; cf. C.N. Tsirpanlis, «The Trinitarian and Mystical Theology of St Symeon the New Theologian», 518-520.
[72] Cf. В. Кривошеин, Преподобный Симеон Новый Богослов (949-1022), 219.
[73] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 306; cf. Hymn., 58, 5-15.
[74] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 110-111; cf. Cat., 2, 139-152.
[75] Cf. Cat., 1, 51.
[76] Nel senso dell’amore di Dio verso uomo, l’amore dell’uomo verso Dio, e l’amore fraterno fra gli uomini. Cf. PGL, 7.
[77] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 101, n. 9.
[78] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 102; cf. Cat., 1, 95-122.
[79] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 103; cf. Cat., 1, 128-130.
[80] Cf. Cat., 1, 121-134.
[81] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 100; cf. Cat., 1, 39-40.
[82] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 104; cf. Cat., 1, 142-144.
[83] Cf. Éth., 4, 548-557.
[84] Cf. В. Кривошеин, Преподобный Симеон Новый Богослов (949-1022), 336.
[85] Éth., 4, 563-571.
[86] Cf. T. Špidlik, «Syméon le Nouveau Théologien», 1393..
[87] Cf. Hymn., 20, 32-44
[88] Euch., 2, 266-272.
[89] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 492; cf. Cat., 34, 315-312
[90] La parola philanthropos – «amante degli uomini», nelle opere di San Simeone si usa di più negli Inni che nelle altre sue opere. Cf. J. Koder, «Index des mots grecs», 385.
[91] Euch., 1, 158-159; Ibid., 2, 138.
[92] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Catéchèses, III, 318-319, n. 1; В. Кривошеин, Преподобный Симеон Новый Богослов (949-1022), 221; B. Krivocheine, «“Ὁ ἀνυπερήφανος Θεός” St. Symeon the New Theologian and early Christian popular piety».
[93] В. Кривошеин, Преподобный Симеон Новый Богослов (949-1022), 233.
[94] Cf. Cat., 24.
[95] Cf. T. Špidlik, «Syméon le Nouveau Théologien», 1390-1391.
[96] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 245; cf. Hymn., 44, 340-359.
[97] Cf. Éth., 2, 5, 31-35.
[98] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 253; cf. Hymn., 47, 10-12.
[99] Nella prima parte del nostro lavoro abbiamo già visto il concetto di penthos secondo San Simeone e il suo contesto viene inserito nella grande tradizione spirituale e monastica bizantina. Cf. I. Hausherr, Penthos, 32-72. Vogliamo ancora aggiungere, che per esempio il padre spirituale di San Simeone, Simeone lo Studita insegna: «Que ton affliction soit continuelle (τὸ πένθος διηνεκές), et ne te rassasie pas des larmes (κόρος τῶν δακρύων μὴ ᾖ)». Cf. Simeone lo Studita, Discours Ascétique, 20, 21.
[100] Simeone, per quanto riguarda la sua concezione delle lacrime, era influenzato da Isacco di Ninive, un autore assai nuovo per gli autori bizantini del X-XI sec., e che comunque ha influenzato, insieme a Simeone, anche tutti i «seguaci» della scuola di Simeone, come per esempio Niceta Stetato e Paulo Evergétinos. Cf. I. Hausherr, Penthos, 177-190. Il concetto espresso è il seguente: finché non ci sono le lacrime, un monaco, pur impegnandosi esteriormente e dedicandosi all’opera di Dio, interiormente è ancora senza frutti. Le lacrime appaiono come segno quando egli nell’intimo non è più al servizio del mondo e l’intelligenza ha fatto il passo verso il mondo nuovo di lassù. Pian piano, con la crescita del «bambino interiore» che sta per nascere, avanzano anche le lacrime. Le lacrime, per Isacco, sono una consolazione ma sono parziali poiché si presentano di tanto in tanto. Questo processo è accompagnato con la gioia. Ciò succede a ogni persona che serve Dio nel silenzio. Le lacrime sono provocate sia dalla contemplazione intellettuale sia dalle parole della Scrittura sia dalla preghiera. Il passo successivo avviene quando l’intelligenza diventa limpida e comincia un «flusso delle lacrime» continuo giorno e notte per almeno due anni. Simeone al posto di «flusso delle lacrime» usa espressione «le piogge delle lacrime». Questo è un segno di una transizione mistica dallo stato psichico allo stato spirituale che come frutto porta la pace dei pensieri. Questo è il momento in cui lo Spirito Santo nella persona comincia a scoprire le cose celesti. Con la pace dei pensieri e con la purificazione di essi è tolta ogni violenza e le lacrime diminuiscono. Dalla preghiera si passa alla preghiera spirituale. Cf. Isacco di Ninive, Discorsi ascetici, Discorso 1-16; cf. S. Chialà, «Introduzione», 18-23. E Giovanni il Solitario ancora aggiunge che il punto sublime che non ha fine è quello in cui le lacrime non ci sono più. «Quand l’intelligence de l’homme est dans (la région de) de l’esprit, il ne pleure pas, tout comme l’ange ne pleure pas.» Nello stato spirituale, che corrisponde a quello angelico, non ci sono affatto le lacrime: cessa il pianto e rimane la gioia. Cf. J. Hausherr, «Jean le Solitaire (Pseudo-Jean de Lycopolis). Dialogue sur l’âme et les passions des hommes», 41-42. Sembra, Isacco nella sua esperienza è arrivato soltanto alla diminuzione delle lacrime. Simeone, invece è un esempio d’un uomo che ha raggiunto lo stato dove «Dio asciuga ogni lacrima» secondo la descrizione di Giovanni il Solitario. Cf. Vie, 69-70.
[101] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 253; cf. Hymn., 47, 15-18.
[102] Qui dobbiamo menzionare la concezione del battesimo di Marco l’Eremita del cui pensiero San Simeone è in un certo senso il continuatore. Marco contro i Messaliani afferma che il battesimo è perfetto (τέλειος) e completo e in stretta connessione con le sue manifestazioni (ἀποκάλυψις) in tutta la vita ascetica del cristiano. Il battesimo concede καθαρισμός – la purificazione del peccato originale e di tutti i peccati commessi prima del battesimo, poi ἐλευθερία – la libertà di non peccare nel senso che il battesimo ripristina la pienezza e l’integrità primordiale della libera volontà e liberandolo da ogni genere di pressione forte e dal dominio del male. Il terzo frutto del battesimo sarebbe ἐνοίκησις – l’inabitazione divina di Cristo e dello Spirito Santo nell’interno del cuore umano. Dalla grazia battesimale che è presente in modo mistico (μυστικῶς) alla grazia battesimale esperimentata (ἐνεργῶς) si passa attraverso la pratica dei comandamenti (ἐργασία τῶν ἐντολῶν). Cf. K.T. Ware, «The Sacrament of Baptism and the Ascetic Life in the Teaching of Mark the Monk», 443-444; cf. C. Streza, «Baptismal grace», 294-296.
[103] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 468; cf. Cat., 32, 60.
[104] Simeone fa la distinzione reale fra il battesimo e la grazia dello Spirito (cf. Eth., 10). Afferma che, a differenza di quello dell’acqua vi è ancora un altro battesimo, battesimo dello Spirito, che coincide con la visione di Dio e con il sentimento di possedere lo Spirito. Lui, però non dubita e non mette in discussione né la necessità del battesimo, che ci rende figli di Dio, né la necessità dell’Eucaristia, che ci dona la vita eterna. Cf. J. Darrouzès, «Introduction», 31; Per quanto riguarda il battesimo sacramentale e il nuovo battesimo dello Spirito e la purificazione della penitenza (cf. Cat., 30, 129-140) come strumento dello Spirito nel pensiero di San Simeone: cf. B. Krivocheine, Dans la lumière du Christ, 148-155.
[105] Il secondo battesimo si capisce come rinnovamento degli effetti dell’innocenza battesimale. Questa purificazione avviene per mezzo della penitenza. Dal quarto secolo questo viene capito esplicitamente nella vita monastica alla quale si attribuisce la virtù purificante del battesimo. Il secondo battesimo è la professione monastica. Cf. H. Delehaye, «La doctrine du second baptême».
[106] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 468-469; Significativo qui è di nuovo Marco l’Eremita del quale Simeone conosceva l’opera e che ci può essere di aiuto per capire la stretta connessione fra sacramento del battesimo e le opere della penitenza. Si può intravedere una linea seguita anche da San Simeone. Marco scrive: «celui qui vit dans la foi vit en raison de la pénitence, même si ce n’est pas à cause de notre propre péché, mais à cause du péché de la transgression, que nous avons été purifiés par le baptême et une fois purifiés, que nous avons reçu les commandements. Celui qui n’exécute pas le second point a profané la première réalité». Cf. Marco l’Eremita, Paen., 12; E ancora: «Effectivement, le saint baptême est parfait (τέλειον), mais il ne mène pas à la perfection celui qui n’accomplit pas les commandements (ἐντολάς).» e «la grâce (χάρις) est parfaite (τελεία) en nous, mais que nous ne le sommes pas (ἀτελεῖς), à cause de nos manquements aux commandements (διὰ τὴν τῶν ἐντολῶν ἔλλειψιν)». Cf. Marco l’Eremita, Bapt., 2, 5-10; 5, 205-209.
[107] Una parte dei suoi monaci, circa trenta persone, probabilmente quelli che erano membri del monastero prima che Simeone ne diventasse l’igumeno, erano contro di lui per le sue esigenze spirituali troppo radicali raccomandate a tutti monaci, quali condurre una vita mistica, presentata da Simeone come una condizione indispensabile per la vita cristiana e ancora di più per la vita monastica. Cf. Vie, 38-39; Essi si opponevano sostenendo che nel tempo presente è impossibile condurre una vita contemplativa e vedere Dio, essere illuminati con le visioni, ricevere lo Spirito e attraverso esso vedere anche il Figlio con il Padre, così come era nei tempi antichi. Simeone riteneva questa loro incredulità e questa loro posizione «impossibile adesso», le considerava una eresia e le chiamava ἀναισθησία, cioè durezza dei cuori. Cf. Cat., 29, 166-190; Ibid., 32, 1-50; Dietro questa rivolta qualcuno potrebbe vedere anche uno sfondo politico. Innanzitutto perché sotto l’influsso della Novella di Basilio II del 966, c’era la tendenza nell’Impero bizantino di sottoporre i monasteri al controllo dell’imperatore, specialmente quelli di Costantinopoli. Secondariamente il giovane imperatore Basilio II cercava, con le sue posizioni politiche, di spezzare la prepotenza della nobiltà e dell’aristocrazia latifondista dell’ Asia Minore. San Simeone proveniva dall’Asia Minore, conosceva i ceti alti ed era in contatto con le famiglie ricche e nobili dell’Anatolia. Cf. V. Krivošein, «Prepodobnyj Simeon Novyj Bogoslov i ego otnošenie k sociaľno-političeskoj dejstviteľnosti svoego vremeni», 242-250; R. Morris, Monks and laymen in Byzantium, 843-1118, 145-154, 181, 247; G. Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, 263-267.
[108] Cf. Cat., 32, 54-55.
[109] Cf. C.N. Tsirpanlis, «The Trinitarian and Mystical Theology of St Symeon the New Theologian», 540-541. Qui di nuovo dobbiamo ricordare che Simeone non fa ciò intenzionalmente ma semplicemente per il motivo che non è affatto sistematico e in questa sua mancanza di sistematicità nell’esprimere la propria esperienza sta la sua debolezza personale.
[110] Cf. Hymn., 30. In questo Inno Simeone per rappresentare l’anima purificata nelle virtù usa l’immagine di una lampada accesa con il fuoco divino dello Spirito. La lampada rappresenta l’anima e l’olio della lampada le virtù dell’anima. Il lucignolo è la mente, il fuoco è la grazia divina, la casa dove risplende il fuoco divino è il corpo tutto intero, e tutti i presenti nella casa, illuminati dal fuoco rappresentano ragionamenti e riflessioni; il topo è usato come rappresentante delle cause di rovina della lampada o di mancanza di olio per essa: queste cause sono l’invidia, rancore, cupidigia, pensieri cattivi ecc. E’ impossibile che la lampada senza il fuoco arda e che il fuoco senza materia nella lampada perduri. Simeone con questa immagine vuole dimostrare l’unione forte fra Dio e l’uomo nella divinizzazione, una sinergia fra Dio e l’anima, fra la grazia di Dio e lo sforzo umano nelle virtù dell’anima in modo tale che Simeone osa dire: «per la natura sono uomo (Ἄνθρωπός εἰμι τῇ φύσει), ma per la grazia sono Dio (Θεὸς δὲ τῇ χάριτι)» (30, 459).
[111] H.J.M. Turner, ed., The Epistles of St Symeon the New Theologian, 4, 455-468.
[112] La consapevolezza della comunione con Dio è uno dei frutti dell’esperienza mistica del monaco e di ogni cristiano. Cf. Cat., 4, 670-689.
[113] Cf. Ep., 4, 425-426.
[114] Invece di prendere le sensazioni esteriori come segno indubitabile della presenza della grazia dello Spirito nell’uomo, come facevano i messaliani, Simeone, come Diadoco, si basa sul discernimento fra bene e male nella coscienza (Perf. 6). Secondo Diadoco, il discorso spirituale soddisfa il senso intellettuale che viene da Dio per mezzo dell’esercizio della carità («Ὁ πνευματικὸς λόγος τὴν νοερὰν αἴσθησιν πληροφορεῖ· ἐνεργείᾳ γάρ ἀγάπης ἐκ τοῦ Θεοῦ φέρεται») (7). Dio comunica i propri beni attraverso il senso intellettuale: «mais quand on a commencé à désirer Dieu de tout sa résolution, alors, dans un commerce indicible, par le sens intellectuel, elle communique à l’âme une partie de ses propres biens (τότε ἀρρήτῳ τινὶ λόγῳ διά τῆς τοῦ νοῦ αἰσθήσεως προσομιλεῖ τῇ ψυχῇ μέρος)» (1; 77, 6). Per Diadoco è normale che si desideri conoscere coscientemente (γνωστῶς γνῶναι) l’amore di Dio, al quale Dio stesso risponde in un grande intuizione sensibile (ἐν αἰσθήσει πολλῇ) della pienezza dell’amore e della gioia (91, 9-15). A differenza di Simeone che non ne parla, Diadoco menziona e riconosce la grazia che all’inizio opera incoscientemente (ἀγνώστως): «La grâce commence d’ordinaire par éclairer l’âme, dans un sentiment profond, de sa propre lumière; avec le progrès des luttes, elle opère insensiblement d’ordinaire, ses mystère dans l’âme contemplative (Ἡ χάρις τὴν ἀρχὴν ἐν αἰσθήσει πολλῇ τὴν ψυχὴν τῷ οἰκείῳ εἴωθε περιαυγάζειν φωτί· προϊόντων δὲ τῶν ἀγώνων ἀγνῶστως τὰ πολλὰ ἐνεργεῖ τῇ θεολόγῳ ψυχῇ τὰ ἑαυτῆς μυστήρια)» (69, 10-12). Nel grande scontro tra l’anima e Satana, quando la battaglia è reale, durante la «desolazione educativa», la grazia, secondo Diadoco, può agire anche in modo incosciente: «la grâce, s’efface, mais elle soutient l’âme d’un secours imperceptible (ἡ χάρις ἑαυτήν, ἀγνώστῳ δὲ τῇ ψυχῇ συνεργεῖ βοηθείᾳ), pour faire paraître aux ennemis de l’âme que la victoire est son fait à elle seule» (87, 14-19). Cf. Diadoco di Fotica, Perf.
[115] Messalianismoè il movimento ascetico e pietistico dei Messaliani (Μεσσαλιανοί), cioè «gente che prega», chiamati anche Euchitai (Εὐχῖται). Era un movimento eretico nel cristianesimo. Gli adepti credevano che il demone fosse così accampato nell’anima della persona che neppure il battesimo o gli altri sacramenti fossero sufficienti a sradicarlo. Soltanto il «battesimo di fuoco», oppure la purificazione spirituale possono liberare la persona dalla forza del demone.
Lo strumento della purificazione è principalmente e soprattutto la preghiera, attraverso la quale si raggiunge la libertà dalle passioni e lo Spirito Santo scende sull’orante. L’esponente più noto è lo Pseudo-Macario, il cui Asceticon fu condannato a Costantinopoli (426), poi al concilio di Efeso (431). L’ala estremista potrebbe rintracciarsi presso i bogomili e i catari. L’ala monastica influì sull’esicasmo e su tutto il monachesimo greco, russo e orientale.Cf. T.E. Gregory, «Messalianism», 1349-1350; J. Gribomont, «Messaliani», 3248; J. Gribomont, «Monasticism and Asceticism. Eastern Christianity», 102-104.
[116] Le chiavi della falsità dei messaliani secondo Hausherr sarebbero i seguenti: la confusione tra ordine reale e ordine dell’esperienza psicologica, tra la grazia e il sentimento della grazia e conseguentemente anche tra il peccato concordato e la passione sentita. Questa confusione ha distrutto la fede nell’efficacia del battesimo e dei sacramenti e non ha lasciato nessuno spazio per una grazia premurosa. Perciò Diadoco e Marco l’Eremita rispondono ai messaliani con la distinzione tra una presenza segreta della grazia e una presenza cosciente di essa. Abbiamo visto ciò citando Diadoco.
Tutta l’illusione mistica dei messaliani, afferma Hausherr, consiste essenzialmente nell’attribuire una causa divina ai fenomeni interiori d’origine puramente fisica oppure possibilmente di origine diabolica. I fenomeni psichici sono ritenuti come un segno della grazia e la loro intensità per la misura esatta dei gradi della grazia.
Il torto dei messaliani, continua Hausherr, è di prendere le sensazioni esterne dell’anima dopo che si è unita con lo Spirito – come la luce, la gioia, il riposo, l’esultanza, la carità ecc. – come segni indubitabili della grazia e sulla base di questa sensibilità esterna discernere di «essere spirituali». Una volta diventati così «spirituali» si giunge alla conseguenza di non avere più bisogno della direzione spirituale perché è lo Spirito, chiamato anche il Grande Carisma oppure il Paraclito, che insegnerà tutto.
Per i cristiani non sottoposti alla tentazione messalianista, l’incontro della natura e del soprannaturale avviene nel battesimo sacramentale; per messaliani ciò avviene nella venuta dello Spirito cioè nel cosiddetto «battesimo spirituale».
L’essenza di questa eresia sta nello spostamento della linea di demarcazione tra il divino e l’umano. Essi confondono il soprannaturale e la coscienza del soprannaturale, che per loro si abbassa sul livello superficiale di «sentire emozionalmente». Cf. I. Hausherr, «L’erreur fondamentale et la logique du messalianisme», 336-338, 352, 356.
[117] Gli avversari di Simeone attaccavano la sua coincidenza verbale con l’espressione messaliana del termine αἰσθητῶς. L’avversario più rappresentativo era il sincello Stefano II, arcivescovo di Nicomedia, l’uomo dell’imperatore Basilio II, ed era un «conservatore impersonale»; era più interessato alla vita governativa che non alla vita spirituale e, in un certo senso, rappresentava le correnti ecclesiali formalistiche di allora. Cf. Vie, 74-93; E. Patlagean, «Les Stoudites, l’empereur et Rome : figure byzantine d’un monachisme réformateur», 454-457; L’αἰσθητῶς dei messaliani si associava non con la visione chiara e reale di Cristo, ma con un’apparizione, con una «réception sensible», e perciò superficiale d’ipostasi dello Spirito Santo. I messaliani sostenevano che è possibile per l’uomo percepire sensibilmente l’ipostasi dello Spirito Santo in ogni certezza e in tutta la realtà. Essi usavano questo termine per definire l’aspetto sensibile «dell’unione ipostatica» dell’anima con lo Spirito Santo e ciò costituiva uno dei momenti cruciali del loro errore dottrinale. Krivocheine afferma, che i correttori del testo originale di Simeone hanno cambiato il termine «messaliano» l’αἰσθητῶς con l’εὐαισθητῶς, proprio per evitare possibili associazioni con i messaliani delle posizioni di Simeone che non era affatto messaliano. Per lo stesso motivo i correttori di Simeone hanno cambiato anche il nome di Simeone da Νέος Θεολόγος, che nell’ambiente religioso bizantino rischiava di essere un sinonimo di «eretico», a Νέος καί Θεολόγος, che, nello stesso ambiente, viene compreso nel modo corretto, cioè «il Giovane e Teologo», nel senso che aveva la conoscenza esperimentale di Dio nell’unione mistica. Il nome così cambiato non rischiava più di scandalizzare. Cf. B. Krivocheine, «Introduction», 151-156. La spiegazione più dettagliata del nome di San Simeone: B. Krivocheine, «The Writings of St. Symeon the New Theologian», 315-327.
[118] Cf. U. Neri, «Introduzione», 66.
[119] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 485; cf. Cat., 34, 103-116. Bouyer conferma l’osservazione di Krivocheine, che la Catechesi 34, dalla quale abbiamo preso la citazione, dimostra la dipendenza di Simeone dalla seconda parte della Grande lettera di Pseudo-Macario. Questa dipendenza spiega l’insistenza di Simeone sul carattere cosciente che deve prendere la vita dello Spirito nell’uomo dell’esperienza mistica come normale fattore di una autentica vita cristiana. Cf. L. Bouyer, La spiritualità bizantina e ortodossa, 37. La Grande lettera, «è il trattato teologico più esteso trasmessoci sotto il nome di Macario», il suo autore è probabilmente un Simeone, ma in fondo non si sa chi sia questo Simeone anche se qualcuno lo identifica con Simeone di Mesopotamia. «Gli sforzi fin ora tentati per dimostrare il messalianismo del documento sono fatica sprecata», afferma Quasten. Cf. J. Quasten, Patrologia, II, 168-169.
[120] Euch., 1, 204-208.
[121] Questa posizione che Simeone ripete tante volte è contro la concezione dell’apatheia dei messaliani. L’apatheia, impassibilità diventa per i messaliani diventa impeccabilità per la venuta dello Spirito Santo. Per loro il peccato, la passione e la concupiscenza sono le stesse cose e tutte interiori. L’apatheia, definita negativamente, non è soggetto di nessuna passione, è uno stato d’animo che consiste nell’assenza di disturbi, piaceri e carichi sensibili mentre, vista dal lato positivo, è la pienezza totale dello Spirito Santo, chiamato anche il Paraclito oppure il Grande Carisma, che non sopporta nessun difetto, nessuna traccia della concupiscenza e rimette i perfetti nell’innocenza originale. La partecipazione al “vero battesimo” che per i messaliani è lo Spirito, il Paraclito, il Grande Carisma, la Grazia mistica e non il sacramento battesimale, viene soltanto per mezzo della fede e non per mezzo delle opere ottenute dalla fatica della vita nelle virtù. Cf. I. Hausherr, «L’erreur fondamentale et la logique du messalianisme», 352.
[122] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 208; cf. Cat., 6, 111-120.
[123] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 163; cf. Cat., 4, 670-677.
[124] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 484; cf. Cat., 34, 68-79.
[125] Cf. Ep., 4, 55-65; Théol., 2, 7, 287-297; Éth., 9, 145-152.
[126] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 484; cf. Cat., 34, 83-87.
[127] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 164; cf. Cat., 4, 682-689.
[128] Nelle persone che meditano le leggi di Dio e le Scritture Divine ogni giorno e notte l’amore dello Spirito riempie prima di tutto i sensi d’intelligenza / sensazione spirituale (τὴν νοερὰν αὐτῆς αἴσθησιν): «Le dessein de la charité de l’Esprit caché en elles comble les sens de son intelligence de toute volupté et en l’élevant tout entière loin des choses terrestres et de la bassesse des choses visibles, il la rend pareille aux anges et associée à la vie des anges eux-mêmes». Cf. Éth., 12, 1-8. La sfera dei sensi d’intelligenza / sensazione spirituale, sono costitutivi per fare discernimento fra il maligno e la vera presenza di Dio per mezzo del suo Spirito: «Qu’il le regarde avec soin et qu’il le palpe bien avec les mains intérieures de l’intelligence (ταῖς νοεραῖς χερσὶ τοῦ νοός) et avec les sens de l’âme (ταῖς αἰσθήσεσι τῆς ψυχῆς) pour voir si c’est bien lui, le Dieu de l’univers», perché il maligno non può né avere e neanche produrre nell’anima «ni bonté, ni douceur, ni joie, ni liberté, ni état de paix, ni connaissance de l’esprit (αἴσθησιν νοεράν), ni illumination de l’âme». Cf. Ibid., 15, 74-93.
[129] Cf. Éth., 4, 643-661.
[130] Secondo noi è importante riportare qui le parole di Marco l’Eremita, che di nuovo ci aiutano capire il pensiero di Simeone: «nous devons jeûner, veiller et nous macérer, afin que notre cœur et nos entrailles s’ouvrent pour l’accepter, au lieu de la rejeter. […] la grâce qui nous a été donnée en secret (κρυπτῶς) par le saint baptême cessera d’être indiscernable (ἀδήλως); nous la découvrirons agissante, de façon pleinement assurée et perceptible (ἐν πάσῃ πληροφορίᾳ καὶ αἰσθήσει), par le fait que nous pardonnerons au prochain ses péchés.» Marco l’Eremita, Consult., 4. Ware afferma che il punto più alto della vita cristiana, secondo Marco l’Eremita, sarebbe l’esperienza cosciente attiva e immediata della presenza dello Spirito Santo che non è il materialismo mistico del messalianismo e neppure un puro intellettualismo: così Marco fa parte della cosiddetta «scuola del sentimento e coscienza soprannaturale» insieme con Diadoco e gli altri cui appartiene anche San Simeone il Nuovo Teologo. Cf. K.T. Ware, «The Sacrament of Baptism and the Ascetic Life in the Teaching of Mark the Monk», 446-447. La cosìddetta«scuola del sentimento e coscienza soprannaturale», cominciando da Diadoco, combatte contro il materialismo mistico dei messaliani. Diadoco stesso afferma «Que personne, en entendant parler de sentiment de l’intellect (αἴσθησιν νοός), n’aille espérer que la gloire de Dieu lui apparaîtra visiblement» (Perf., 36), anche se nell’anima pura (καθαρεύῃ τὴν ψυχήν), si può percepire, apprendere dai sensi (αἰσθάνεσθαι) un gusto indicibile, la divina consolazione, ma non nel senso che l’invisibile appaia e diventa visibile. Infatti, verso le apparizioni e i sogni si ha una posizione piuttosto negativa (Perf., 37-40). Così, come la madre sente e riconosce attraverso i movimenti che agitano un bambino nel suo grembo, così, nel cuore, con il sentimento intellettuale si apprende la presenza dello Spirito per la gioia e l’esultanza. Ci sono i momenti della cosiddetta «desolazione educativa (παιδευτικὴ παραχώρησις)», quando l’anima si riempie di disperazione, dubbi, collera, orgoglio, nei quali lo Spirito Santo è presente anche se non si sente (Perf., 86-87).Cf. I. Hausherr, «Les grands courants de la spiritualité orientale», 126-128.
[131] Cf. Ep., 4, 425-431.
[132] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 263; cf. Cat., 10, 81-105. San Basilio per esempio lo chiama καὶ καλόν τοῦ νοῦ ἡ ἐνέργεια. Cf. Ep., 233, PG 32, 864C-865A.
[133] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 311; cf. Cat., 16, 141-144.
[134] Il centro cruciale dei suoi Discorsi Etici è proprio nella consapevolezza della conoscenza (ἐν αἰσθήσει καὶ γνώσει) di Dio. Il motivo sta nell’argomento che siccome la piena conoscenza consapevole di Dio appartiene al futuro, uno per essere figlio della luce del secolo avvenire deve sforzarci di esserlo già qui. Se la possessione dello Spirito è incosciente, allora sarà tale anche nella vita eterna. Cf. B. Krivocheine, Dans la lumière du Christ, 171-176; cf. U. Neri, «Introduzione», 67-74.
[135] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 208; Cat., 6, 112-119.
[136] Éth., 10, 501-513.
[137] Cf. Y. Spiteris, Salvezza e peccato nella tradizione orientale, 114. L’abito di immortalità per i Padri, come per esempio Gregorio di Nissa, sono le «tuniche di pelle»: è la vita dell’uomo dopo il peccato, cioè la condizione mortale nella quale uomo si trova, «la vita in morte». Cf. P. Nellas, Voi siete dèi : antropologia dei Padri della Chiesa, 56-64; dunque, la via d’uscita dalla «vita in morte», per i Padri, così come anche per Simeone, è la partecipazione alla vita eterna per mezzo dello Spirito Santo, già nel tempo presente. Cf. Gregorio di Nissa, Hom. 1-15 in Cant., 13 (PG 44, 1004D-1005A); Virg., 13 (PG46, 376B).
[138] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 246; cf. Hymn., 44, 406-414.
[139] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 208; Cat., 6, 111-118.
[140] Il θεοειδής è il deiforme, simile a Dio. Nel nostro caso si riferisce alle virtù, di cui l’esercizio ha la forza deiforme. Cf. PGL, 625, 4. Già Pseudo-Dionigi, nel De ecclesiastica hierarchia afferma, che è la pratica delle virtù, presente negli uomini santi e spirituali, che li avvicina a Dio e a tal punto aiuta a loro spirito di imitare Dio, che Lui riproduce la Sua immagine in essi e li fa deiformi. Cf. E. h., 4, 3.1 (PG 3, 473B).
[141] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 56; cf. Hymn., 13, 32-36.
[142] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 65; cf. Hymn., 15, 134-136.
[143] Cf. Hymn., 15, 140-179; cf. Hymn., 15, 140-179; La deiformità secondo Simeone prende misure «scandalizzanti», cioè tali che la presenza di Cristo nel suo corpo si realizza persino in quelle parti che solitamente non sono associate a cose superiori. A. Golitzin, «Il corpo di Cristo: Simeone il Nuovo Teologo sulla vita spirituale e la chiesa gerarchica», 259.
[144] Cf. R.F. Taft, La liturgia delle ore, 424-425.
[145] Éth., 10, 850-857.
[146] Cf. L. Bouyer, «La spiritualité byzantine», 669.
[147] Cf. И. Алфеев, Преподобный Симеон Новий Богослов и православное предание, 119-124.
[148] Cf. Éth., 14, 35-88; Nella descrizione delle feste e nel simbolismo spirituale di esse descritto da Simeone nell’ Éthiques, si possono percepire gli echi di Pseudo-Dionigi per esempio nella E.h., 4, 3, 1-4 (PG 3, 476A-480A). Cf. A. Golitzin, «Il corpo di Cristo: Simeone il Nuovo Teologo sulla vita spirituale e la chiesa gerarchica», 278-283.
[149] Éth., 14, 90-92.
[150] Cf. B. Krivocheine, Dans la lumière du Christ, 92; cf. A. Golitzin, «Il corpo di Cristo: Simeone il Nuovo Teologo sulla vita spirituale e la chiesa gerarchica», 281.
[151] Secondo le testimonianze personali di Simeone (cf. Hymn., 20, 240), sappiamo che anche lui come San Paolo, «era rapito fino al terzo cielo» (2Cor 12, 2). Forse anche per questo motivo nei suoi Inni possiamo incontrare tante volte la parola celeste – ἐπουράνιος, preso dal vocabolario paolino. Nell’Inno 44 Simeone dà una descrizione dell’uomo terrestre – χοϊκός, «c’est de terre qu’il fut créé, […] tels aussi tous ceux qui naissent de lui», e dell’uomo celeste – ἐπουράνιος, «tel est le Christ (notre) Maître céleste, célestes aussi sont tous ceux qui ont cru (πεπιστευκότες) en lui, sont renés d’en haut (ἄνωθεν δὲ γεννηθέντες) et ont été également baptisés (βαπτισθέντες) dans l’Esprit très saint. Tel (l’Esprit) qui les a fait naître (γεννῆσαν), véritablement Dieu, tels sont ceux qui naissent de lui, dieux par adoption de Dieu (ἐκ Θεοῦ θεοὶ θετοί γε) et tous fils (υἱοί) du Très Haut». Cf. Hymn., 44, 255-270.
[152] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 366; cf. Cat., 22, 221-224.
[153] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 246; cf. Hymn., 44, 415-424; «insieme ai celesti», sembra che Simeone qui intende le schiere angeliche. Cf. Ibid., n. 1. Nella tradizione bizantina, il profeta Elia è quello che la liturgia chiama «angelo terrestre e uomo celeste»: «a Dio con la virtù ti sei puramente unito, vivendo in terra una vita celeste», «veramente avevi mostrato sulla terra la vita celeste». Questi e simili espressioni si possono trovare nei testi della festa di Sant’Elia profeta nel giorno di 20 luglio. Cf. Anthologhion di tutto l’anno, IV, 765-784; il Giusto Enoch e il profeta Elia sono mostrati da Simeone come esempi di persone celesti in questa terra. Fu un onore da Dio il loro trasferimento nei cieli, per il motivo che hanno mostrato già sulla terra la loro vita celeste, pur non avendo ancora tale grazia come noi dopo la venuta di Cristo. Cf. Cat., 5, 445-465.
[154] Si potrebbe parlare di tre grazie diverse ottenute nella «visione». La prima è la visione stessa del volto raggiante del Signore in modo non diretto, ma come se fosse rispecchiato nell’acqua. Durante questa visione cresce la fede e la speranza. La seconda grazia è l’estasi celeste paragonabile al «rapimento fino al terzo cielo» di San Paolo (2Cor 12, 2). In questa grazia si sperimentano la grandezza della gloria e il fuoco dell’amore divino. Come terza grazia, il Signore concede la propria vicinanza e Simeone percepisce la voce stessa di Dio. C’è un dialogo intimo. La voce di Dio stabilisce così l’incontro fra Dio e il suo servo a livello famigliare come φίλος φίλῳ. Durante questa famigliarità si sperimentano gloria, gioia e dolcezza insuperabile. Cf. Simeone il Nuovo Teologo, «Le due “Preghiere di ringraziamento a Dio”», 64-67; cf. Euch., 2, 126-254.
[155] Simeone il Nuovo Teologo, «Le due “Preghiere di ringraziamento a Dio”», 68; cf. Euch., 2, 249-254.
[156] Cf. Hymn., 15, 140-205 In questi versetti Simeone spiega la santificazione delle nostre membra per la presenza di Cristo in noi, tutto intero e vede la sua presenza reale in tutte le membra del corpo umano intero, anche se questo potrebbe sembrare scandalizzante. Secondo Golitzin Simeone usa un linguaggio assai coraggioso con termini insoliti e assai pugnalanti.
[157] A. Golitzin, «Il corpo di Cristo: Simeone il Nuovo Teologo sulla vita spirituale e la chiesa gerarchica», 259.
[158] Éth., 2, 7, 3-5.
[159] Éth., 2, 7, 30.
[160] Due esempi dei grandi santi da seguire che egli propone ai suoi monaci sono: Sant’Antonio il Grande (Cat., 6, 40-69), Sant’Arsenio il Grande (Cat., 6, 70-163), e anche gli altri santi (Cat., 5, 573-675) come esempi della santità dell’antichità. Propone anche San Simeone il Pio (Cat., 6, 163-299), il suo padre spirituale e un certo Antonio (Cat., 21), giovane monaco morto nella sua comunità, come esempi dei santi monaci odierni vivi e illuminanti. Alfeev afferma che San Simeone s’interessa dei santi tanto quanto la loro esperienza era simile alla sua e all’esperienza dell’epoca nella quale viveva. Cf. И. Алфеев, Преподобный Симеон Новий Богослов и православное предание, 220-234.
[161] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 203-204; cf. Cat., 6, 18-22. Riportiamo qui la nota 5 di Neri dove chiarisce che l’«“opera corporale” è l’esercizio dell’ascesi e la pratica delle virtù (“povertà, digiuno, veglia, continenza, pazienza”); “operazione spirituale” è l’illuminazione dello Spirito, la visione e il possesso di Dio e la vita celeste che ne consegue. […] Secondo l’insegnamento costante di Simeone, l’ascesi e la pratica delle virtù sono passi preliminari necessari e compiti ineludibili: chi non compie le opere corporali “non è neppure degno di sentir parlare” dei carismi spirituali.»
[162] Cf. Cat., 6, 24.
[163] Cf. Éth., 14, 156
[164] Cf. Giovanni Climaco, La scala, 19, 1.
[165] Cf. K.T. Ware, «La deificazione in Simeone il Nuovo Teologo», 161; cf. Hymn., 1, 183, 325-326; Cat., 23, 173-175, 199-201.
[166] Cf. Hymn., 8, 39-40.
[167] Sono enumerate azioni come: «osservare i precetti divini», «rifiutare il mondo», «odiare senza odio i genitori», «svestirsi delle ricchezze e della vana gloria », «recidere la propria volontà», «acquistare virtù», «piangere per il timore di Dio». Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 41-42; Hymn., 8, 10-35.
[168] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 42; cf. Hymn., 8, 34-39.
[169] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 86; cf. Hymn., 18, 55-61.
[170] Cf. Cat., 30; 31.
[171] Soltanto per fare una comparazione, la parola ἁγιασμός si utilizza nel linguaggio liturgico fino ad oggi. Lo ἁγιασμός significa l’acqua santificata attraverso la benedizione liturgica della Chiesa bizantina; ὁ μέγας ἁγιασμός è la grande benedizione dell’acqua durante la festa dell’Epifania, e τὰ ἁγιάσματα si usa per identificare le cose sante, cioè le cose consacrate e benedette dalla Chiesa, p.e.: la stessa Eucaristia, l’acqua benedetta, il pane benedetto. Cf. L. Clugnet, Dictionnaire grec-français des noms liturgiques en usage dans l’Église grecque, 1-2.
[172] Éth., 13, 204-207.
[173] Simeone il Nuovo Teologo, La visione della luce, 172; cf. Cap., 3, 45.
[174] Simeone il Nuovo Teologo, La visione della luce, 172; cf. Cap., 3, 47.
[175] Simeone usa qui la parola greca ἀρραβών nel senso della promessa futura e della realizzazione della beatitudine perfetta nei cieli; nel senso della grazia cioè della dote donata dallo Spirito «alle anime sposate con Cristo». Cf. PGL, 229, B1-4.
[176] Cf. Cap., 3, 48-51; Simeone per esprimere le realtà spirituali della relazione fra anima e Sposo usa un vocabolario matrimoniale tipico della legislazione bizantina di quell’epoca. Cf. M. Pătraşcu, Lo scioglimento del vincolo matrimoniale nella legislazione civile e canonica dell’Impero bizantino (sec. VI-X), 94-99.
[177] Simeone il Nuovo Teologo, La visione della luce, 173-174; Cap., 3, 51.
[178] Simeone il Nuovo Teologo, La visione della luce, 112; cf. Cap., 1, 18.
[179] Hymn., 14, 26-28.
[180] Al Signore Simeone chiede per i suoi confratelli: «Dà la pazienza ai tuoi servi, affinché la sofferenza non li ricopra». Cf. Hymn., 6, 23-24; e chiede per se stesso: «Tu che sei un medico che ama le anime […], risanami interamente in maniera completa come prima […], quando c’era in me tranquillità serena, pace e mitezza, la santa umiltà e la pazienza». Hymn., 46, 15-21.
[181] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 128-129; cf. Hymn., 23, 400-414.
[182] Simeone per esprimerlo usa due espressioni: «imperfetta perfezione (ἀτελὴς ἡ τελειότης)», (imperfetta in quanto non ha fine ed è sempre in crescita) e «fine infinita (ἀτέλεστον τέλος)». Cf. K.T. Ware, «La deificazione in Simeone il Nuovo Teologo», 161-162.
[183] Cf. Cat., 20, 117.
[184] Cf. Hymn., 5, 24.
[185] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 43; cf. Hymn., 8, 98-101.
[186] Siccome la nostra meta non è descrivere la concezione della visione secondo San Simeone, rimandiamo al libro di B. Fraigneau-Julien, Les sens spirituels, 118-197.
[187] «Una visione della divinità – theofania, come anche la conoscenza divina – theognosia, nella teologia ortodossa è il frutto dell’ascolto, della visione e soprattutto della contemplazione di Dio. La rivelazione di Dio si realizza continuamente con le teofanie nella creazione e nella storia. Nonostante che tutti i fedeli ascoltino la parola, ci accorgiamo che gli effetti che da essa derivano – la vera luce e la contemplazione di Dio come sommo dono esistente nella Chiesa – sono visibili nei patriarchi, nei profeti, negli apostoli e nei santi. […] la loro esperienza di contemplazione divina, cioè della verità, non è un carisma privato ed esclusivo per loro solo, appartiene a tutta la comunità dalla quale si trasmette e si comunica a tutte le membra del corpo ecclesiale. Cf. N. Matsoukas, «Le teofanie», 116-117.
[188] Cf. B. Fraigneau-Julien, Les sens spirituels, 190.
[189] Cf. Hymn., 53, 133-139; Éth., 10, 50-51; Cat., 15, 14-21; cf. J.R. Price, «Mystical Transformation of Consciousness in Symeon the New Theologian», 8-9.
[190] Cf. Éth., 13, 40-120; Cat., 5, 220-280.
[191] Ci sono tre gradi della visione stessa di Dio che possiamo incontrare in Simeone: il primo è la visione di Dio nello specchio delle creature, il secondo è una visione indistinta e parziale per un’illuminazione velata, e il terzo grado è un’immersione profonda in Dio. Cf. B. Fraigneau-Julien, Les sens spirituels, 146-147.
[192] L’uomo secondo la concezione simeoniana possiede due sguardi, così come esistono due soli ed anche due luci. Lo sguardo sensibile αἰσθητός, che fa parte dello σῶμα e spirituale νοεροὺς, che si trova nel νοῦς. Se uno possiede solo la parte sensibile e non quella spirituale significa che quell’uno è morto. Cf. Hymn., 23, 448, 86.
[193] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 287-288; cf. Hymn., 53, 175-229.
[194] La teologia patristica stessa si dimostra molto complessa per quanto riguarda la rivelazione, la teofania. «Il vocabolario è lungi dall’essere uniforme. Non basta pertanto riferirsi alle voci ἀποκάλυψις, φανέρωσις, rivelatio e simili. Si deve considerare anche εὐανγγέλιον, οἰκονομία, μηστήριον, γνῶσις, παιδεία, παράδοσις ecc., altrettanto le immagini correnti, come parola, voce divina, visione, ispirazione e altre. Le posizioni teologiche dei singoli autori divergono anch’esse […]. Osservando tutti gli sviluppi patristici della complessa dottrina biblica sulla rivelazione, si constata anzitutto la grande apertura dei teologi antichi verso i fenomeni diversi di manifestazione divina e la supposizione del tutto naturale che Dio si comunichi all’uomo. […] Le difficoltà contro le quali i Padri devono battersi non toccano dunque la possibilità della rivelazione gratuita della vita interiore di Dio, ma piuttosto la sua forma concreta, cioè la manifestazione di Dio per mezzo dell’incarnazione del vero Figlio di Dio. […] Tutti gli autori però guardano l’incarnazione pure in una prospettiva futura, considerandola come base dell’ascesa spirituale verso la visione eterna di Dio […].» Cf. B. Studer, «Rivelazione», 4572-4573.
[195] Cf. N. Matsoukas, «Le teofanie», 127.
[196] Cf. C.A. Tsakiridou, «Theophany and Humanity in St. Symeon the New Theologian and in Abū Hamid Al-Ghāzāli», 171-178.
[197] Cf. Éth., 10, 719-725.
[198] La visione della gloria di Dio comincia nell’intelligenza (τὸν νοῦν), nel riflettere in essa la gloria di Dio, che in sostanza significa partire della contemplazione (θεωρίας) degli «esseri», cioè dalle creature, nell’ambito del monastero i monaci e viceversa, per arrivare alla conoscenza (γνῶσιν) di Dio. Cf. Cap., 2, 15; C’è un l’altra visione, più parziale, la visione della propria anima nel cuore (καρδία) puro (καθαρά). Cf. Ibid., 3, 35.
[199] Si tratta delle promesse delle Beatitudini. Cf. Cat., 2, 153-195; Cat., 31.
[200] I modi di partecipazione sono i seguenti: penitenza, adempimento dei comandamenti, permettere di lasciarsi trovare da Cristo, riscoprire Cristo e dargli da mangiare, bere, ecc., secondo le Beatitudini. Cf. Éth., 10, 645-669.
[201] Cf. Éth., 10, 697-717.
[202] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 195; cf. Hymn., 34, 15-17.
[203] Simeone il Nuovo Teologo, La visione della luce, 146-147; cf. Cap., 2, 8-9. Notiamo che il testo greco «αὐτόν τε τὸν Θεὸν ἀπλανῶς ὁρᾷ» tradotto in italiano come «vede Dio faccia e faccia», è reso da SC 51biscome «celui-là voit Dieu en personne sans erreur possible».
[204] Éth., 3, 190-197.
[205] La «divinizzazione», θέωσις, secondo Simeone, costituisce l’essenza della vita spirituale, lo scopo e la destinazione del cristiano. Queste caratteristiche possiamo trovarle piu o meno già nei Padri – νηπτικοὶ πατέρες, ma nelle esortazioni di Simeone il Nuovo Teologo, esse possiedono una nuova vitalità e un posto più centrale. Cf. C.N. Tsirpanlis, «The Trinitarian and Mystical Theology of St Symeon the New Theologian», 540. La theosis è un evento cristologico, perché si basa sull’incarnazione, pneumatologico perché è chiamata ad essere esperienza consapevole della presenza dello Spirito Santo che abita in noi, e alla fine sacramentale, trasmessa a noi attraverso il sacramento del battesimo e, più particolare, attraverso l’Eucaristia. Concerne tutta la persona, corpo e anima insieme e può essere sperimentata già qui e ora nella vita presente. Cf. K.T. Ware, «La deificazione in Simeone il Nuovo Teologo», 141-151.
[206] Cf. B. Fraigneau-Julien, Les sens spirituels, 193-194.
[207] Da θέα – «contemplazione», «visione di Dio» dalla parte dell’uomo. Cf. PGL, 615, 1c.
[208] Darrouzès qui nota che l’audizione, secondo Simeone, ha un carattere inferiore al rispetto della visione e non può procurare la conoscenzacosciente, anche se per l’audizione semplice si può ottenere la grazia come lo testimoniano la vita di tanti convertiti in antichità e di coloro che sono a lui contemporanei. Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Traités théologiques et éthiques, II, 186, n. 1.
[209] Cf. Éth., 7, 425-445; Cat., 19, 166-169; cf. В. Кривошеин, Преподобный Симеон Новый Богослов (949-1022), 229.
[210] Cf. Hymn., 34, 1-15.
[211] Cf. Théol., 1, 157-159.
[212] Simeone riporta qui le citazioni della Scrittura: 1Cor 15, 49; Eb1, 3; Gv 14, 9; 2Cor 3, 17; Rm 8, 16.26; Con esse vuole affermare e sottoscrivere davanti ai suoi ascoltatori che non siamo chiamati alla condanna, ma alla salvezza da Signore stesso per il motivo che siamo figli. Cf. Éth., 3, 350-374; «aimons notre Maître, accueillons son amour pour nous et nous saurons que, s’il n’avait pas voulu nous sauver par lui-même après nous avoir rachetés, il ne serait pas non plus descendu sur terre, il n’aurait pas été immolé à cause de nous». Cf. Ibid., 2, 1, 174.
[213] Il termine greco οἰκονομία nel NT e nella letteratura patristica allude soprattutto al piano di salvezza dell’umanità voluto da Dio. Cf. J.H. Erickson, «Oikonomia»; cf. PGL, 941-942, C2-6.
[214] Éth., 3, 387-396.
[215] Simeone anche se non è molto preciso, ma distingue τόπος ἀνέσεως – paradiso primitivo, cioè luogo dove si ammette la sopravvivenza e dove era introdotto il buon ladrone, βασιλεία τῶν οὐρανῶν – il regno dei cieli. Cf. Éth., 1, 8, 54-55; Il terzo è semplicemente cielo – οὐρανός, come posto dei beni eterni, che spesso nomina come paradiso – παράδεισος. Cf. Ibid., 3, 400-409. Niceta Stetato, il figlio spirituale di Simeone, precisa e riporta ancora il termine paradiso intelligibile – νοητὸς παράδεισος, che sarebbe paradiso divino – θεῖος, piantato nella creazione in modo invisibile all’anima ed è nel rapporto con la contemplazione. Cf. Niceta Stetato, Du Paradis, 18.
Per quanto riguarda la realtà dell’aldilà, i bizantini cercavano di risolverla. Il problema era il concetto di paradiso. Pseudo-Atanasio avverte che la questione è molto difficile da spiegare. Le scritture permettevano di dire semplicemente che i giusti sono nel paradiso. Il paradiso non è altro che il sagrato del regno di Dio. Anastasio Sinaita diceva che le anime dei giusti si trovano nel paradiso insieme al buon ladrone. Ma non sono ancora entrate nel regno di Dio, a motivo che prima della risurrezione generale e del giudizio finale non può essere né piena ricompensa né piena punizione.Questa posizione era condivisa per esempio da Fozio nel IX sec., e da Teofilatto di Ocrida nel XI sec. Di un altro parere era Niceta Stetato. Secondo lui Cristo ha aperto alle anime non soltanto il paradiso, ma anche il regno di Dio, e proprio lì si trovano le anime dei santi dopo la morte. Il paradiso promesso al buon ladrone non è altro che il regno di Dio, oppure ancora meglio, Dio stesso. La posizione di Filippo Solitario, autore di Dioptra, è influenzato da Niceta Stetato. Cf. A. Wenger, «Ciel ou paradis. Le séjour des âmes, d’après Philippe le Solitaire, Dioptra, livre IV, chapitre X», 561-563.
[216] Éth., 3, 430-440.
[217] Simeone fa un appello: «nous qui mangeons dignement cette chair qui est sienne, nous avons en nous tout entier le Dieu incarné». Cf. Éth., 1, 10, 59-61. L’Eucaristia è per la visione importante perché soltanto coloro che prendono parte «à la chair divine du Seigneur, méritent aussi la révélation (ἀποκάλυψιν) par le contact intellectuel de la divinité invisible», e possono unirsi a Cristo in maniera non solo «sensibile (αἰσθητῶς)» ma anche «intelligibile (νοητῶς)» ed essere «associés (συγκοινωνοί) à sa gloire (δόξης) et à sa divinité (θεότητος)». Cf. Éth., 14, 224-248; cf. Vie, 128.
[218] Le idee fondamentali di Simeone per quanto riguarda dell’Eucaristia sono descritte da Krivocheine. Cf. B. Krivocheine, Dans la lumière du Christ, 107-130.
[219] Éth., 3, 499-501.
[220] Cf. Théol., 1, 189-194.
[221] La conoscenza spirituale – πνευματικὴ γνῶσις delle Scritture, viene contrapposta da Simeone alla conoscenza materiale, cioè naturalmente umana ἀνθρωπίνη, mondana κοσμική e pagana ἑλληνική. Quella spirituale viene realizzata in virtù dell’adempimento dei comandamenti τὰς ἐντολὰς del Signorenei quali risiede la vita eterna (Cat 24, 51-54), in virtù dell’impegno ascetico e della lotta spiritale (Cap 1, 37 ), e in virtù della conversione (Cap 3, 46). Cf. Cat., 24.
[222] Théol., 1, 195-200.
[223] Cf. Hymn., 53, 64-324. Simeone qui riporta i rimproveri e l’insegnamento ai funzionari ecclesiastici, cioè ai vescovi e ai sacerdoti.
[224] Simeone non nega la validità dei sacramenti e delle consacrazioni sacerdotali o episcopali, ma dalla posizione di un certo «elitarismo spirituale» nega il fatto, che la maggior parte dei titolari ecclesiastici siano degni, non essendo riusciti ad appropriarsi in realtà della presenza dello Spirito Santo per un adeguato lavoro spirituale. Simeone sostiene la posizione che non si dovrebbe osare di pretendere al sacerdozio, al vescovato o a dirigere delle anime, senza ricevere l’illuminazione sensibile dello Spirito. Cf. V. Déroche, «L’autorité religieuse à Byzance, entre charisme et hiérarchie», 57.
[225] L’esperienza mistica nell’ambito cristiano dopo un certo sviluppo venne a significare l’esperienza interiore del possesso di Dio. Il termine «mistico», nel senso originario, viene a significare la scoperta dell’amore di Dio. Per i Padri greci, il Mistero – μυστήριον o i misteriindicano in particolare i vari sacramenti: dietro i simboli sensibili è presente una realtà divina. Proseguendo in questa direzione, «mistico» viene a indicare, più esplicitamente e innanzitutto, lo stesso Gesù come manifestazione visibile e, allo stesso tempo, mistero dell’opera salvifica di Dio. Solo passando per questo significato originario, il termine «mistico» diventa attributo della contemplazione dei divini misteri; sicché contemplazione viene a significare visione dei misteri di Dio. Anche se il primo uso del termine «mistica» applicato a un certo modo di conoscere Dio direttamente e in modo quasi sperimentale sembra trovarsi in Origene, è, soprattutto Dionigi Areopagita nel suo trattato Nomi divini a parlare di mistica in senso di esperienza. Secondo lui si può soltanto entrare nella «nube oscura» del mistero di Dio. Con Dionigi inizia la dottrina dell’«esperienza di Dio nascosto nella tenebra». L’esperienza cristiana dunque, è esperienza di conoscenza offerta dallo Spirito attraverso Cristo Gesù. Si tratta di conoscenza sperimentale delle realtà divine, che va al di là della conoscenza speculativa della verità divina. E’ esperienza dello Spirito e perciò della fede. Tutti i cristiani, indistintamente, sono chiamati a fare tale esperienza che tende alla pienezza della vita cristiana come anticipazione della vita futura. Cf. L. Borriello, «Esperienza mistica», 463-466. Per Simeone l’orante veritiero deve conoscere il Signore Gesù personalmente e dovrebbe crescere nella consapevole presenza interiore dello Spirito Santo. Senza esperienza personale e consapevole e anche mistica non si è veri cristiani. In questo senso il misticismo di Simeone dovrebbe chiamarsi «misticismo obbligatorio». Cf. K.T. Ware, «The Mystery of God and Men», 228-231.
[226] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 474; cf. Cat., 33, 80-162.
[227] Cf. B. Fraigneau-Julien, Les sens spirituels, 147.
[228] Cf. Y. Spiteris, Salvezza e peccato nella tradizione orientale, 42.
[229] Cf. R.F. Taft, Oltre l’oriente, 168-169. Mateos afferma che già nei documenti del IV sec., ci sono testimonianze dei Padri come San Gregorio di Nissa, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Giovanni Crisostomo, e della pellegrina Egeria, che testimoniano nell’officium della sera «il ringraziamento per la luce» come anche dell’inno serale Φῶς ἱλαρόν, e che era naturale per i cristiani di vedere nella luce un simbolo di Cristo. Cf. J. Mateos, «Quelques anciens documents sur l’office du soir», 348-360; J. Mateos, «L’office monastique à la fin du IVe siècle : Antioche, Palestine, Cappadoce».
[230] Cf. H. Graef, Histoire de la mystique, 129-135. L’autore, in questo studio sui mistici, afferma che alla famiglia dei mistici appartiene ed ha un posto importante anche Simeone il Nuovo Teologo, con una reputazione di un mistico originale ed eccezionale. K. Ware lo chiama il mistico «solare» anziché «notturno». Il motivo è che lui a differenza dei grandi mistici: San Gregorio di Nissa oppure Pseudo-Dionigi Areopagita, che descrivevano l’incontro tra l’uomo e Dio in termini della «note», San Simeone invece usa terminologia della «luce». Cf. K.T. Ware, «The Mystery of God and Men», 231-234.
[231] L’«estasi» etimologicamente indica l’«uscire fuori di sé» e l’«essere fuori di sé». Paolo verifica la legittimità del procedimento estatico con due criteri: la sequela di Gesù e l’edificazione della comunità (cf., 1Cor 12, 3; 14, 5). Pseudo-Dionigi Areopagita descrive l’estasi come evento spirituale-personale (perciò in ultima analisi non corporeo): «L’amore divino rapisce in estasie fa sì che chi ama non appartenga più a se stesso, ma solo all’amato». Occorre tener presente la totalità dell’uomo anche nella sua esperienza mistica, perciò rimane legittimo il principio secondo cui la mistica, nella sua essenza, è frutto di un libero dono divino, non di particolari capacità umane. Tale dono deve presentarsi anche nella pratica meditativa dell’estasi come un’esperienza d’amore che fa dimenticare se. Cf. J. Sudbrack, «Estasi», 477-479.
[232] Cf. B. Krivocheine, «Vision de Lumière chez St. Syméon le Nouveau Théologien», 15.
[233] Nella tradizione monastica in genere si potrebbe considerarla praxis positiva, cioè l’esercizio delle virtù, soprattutto della carità, e praxis negativa, cioè il combattimento con i peccati, passioni e i pensieri cattivi, come l’esercizio dello sforzo umano che aiuta la trasformazione del monaco partendo dal livello corporale e raggiungendo quello spirituale. Cf. T. Špidlik – M. Tenace – R. Čemus, Il monachesimo secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, 146-147. Anche se, già Climaco, parlando di compunzione, come di «inaspettata visita di Dio», menziona, che con essa si ottiene di più, che dallo sforzo umano. Cf. Giovanni Climaco, La scala, 7, 27
[234] «La Santa Scrittura dice che Dio è Luce. Per la teologia mistica della Chiesa d’Oriente non si tratta di metafore, d’immagini retoriche, ma di parole che esprimono un aspetto reale della divinità. Se Dio è chiamato luce, è perché non può rimanere estraneo alla nostra esperienza. La “gnosi”, la coscienza del divino nel suo grado supremo è un’esperienza di luce increata, e questa esperienza stessa è luce […]. È quello che si percepisce, ed il mezzo per cui si percepisce nell’esperienza mistica.» Cf. V. Lossky, La teologia mistica, 212.
[235] Cf. B. Krivocheine, «Vision de Lumière chez St. Syméon le Nouveau Théologien». In questo articolo l’autore offre una bella analisi di tutti i casi, conosciuti da accenni autobiografici riportati da Simeone stesso, nei quali Simeone ha avuto l’esperienza personale della «visione» della luce divina. Cf. K.T. Ware, «The Mystery of God and Men», 231-234.
[236] Cf. Éth., 5, 255-277.
[237] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 86; cf. Hymn., 18, 55-61.
[238] Una bellissima ode sul Dio che è la luce, scritta da Simeone, si trova qui: Cf. Théol., 3, 138-210.
[239] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 245; cf. Hymn., 45, 6-39.
[240] Simeone il Nuovo Teologo, «Le due “Preghiere di ringraziamento a Dio”», 53-54; cf. Euch., 1, 201-205.
[241] V. Lossky, La teologia mistica, 392.
[242] Cf. H. Bergeron, «Le Sens de la Lumière chez Syméon», 17.
[243] Cf. Y. Spiteris, «La conoscenza “esperienziale” di Dio», 402.
[244] Simeone il Nuovo Teologo, «Le due “Preghiere di ringraziamento a Dio”», 67-68; cf. Euch., 2, 186-193.
[245] Cf. Hymn., 29, 55-150.
[246] Studer afferma che nella letteratura patristica sono diffuse le voci greche φωτίσειν, φωτισμός, e loro sinonimi ἔκλαμψις, ἔλλαμψις, che corrispondono a quelle latine illuminare, illuminatio. Da notare è il tema dell’illuminazione nel senso della conoscenza religiosa. Gregorio di Nissa, Evagrio e gli altri, facevano le proprie riflessioni sul fatto. Il culmine ragiunse la sintesi del Pseudo-Dionigi, che distingue pure tre vie: via della purificazione, della illuminazione e dell’unione. Cf. B. Studer, «Illuminazione»; cf. Ps.-Dionigi Areopagita, C. h., 13, 3-4. Simeone per l’illuminazioneusa il termine ἔλλαμψις, la spiegazione di cui seguirà.
[247] Cf. Cat., 16, 8-12; Secondo Simeone, le «divine illuminazioni» – ἐλλάμψεις, si presentano in due modi: nell’abbondanza della luce – φωτός τε πλῆθος, e nel parlare, comunicare di Dio con gli uomini – ὁμιλίαν Θεοῦ πρός ἀνθρώπους, che avviene attraverso la luce. Notiamo che Simeone qui presenta ciò che «aveva udito spesso parlare» dalla sua guida spirituale – Simeone lo Studita, allora parla di ciò che fa parte di una tradizione spirituale teologica e monastica, trasmessa si fino al suo padre spirituale, dove, generalmente parlando, l’ἔλλαμψις è l’illuminazione spirituale di Dio nell’uomo,il φῶς è la luce divina dello Spirito Santo […], anche se questa parola ha il significato molto complesso e l’ὁμιλία esprime il raporto spirituale nel conversare o la comunione con Dio. I significati precisi di questi concetti usati dai Padri nei vari contesti: Cf. PGL, 451; 1504-1507; 951, A2b.
[248] Si tratta praticamente delle «operazioni dello Spirito Santo» – τῶν ἐνεργειῶν τοῦ Πνεύματος τοῦ Ἁγίου, così si precisa nel titolo della catechesi stessa. Cf. Cat., 16, 123-133. Per Simeone, sono l’attività, l’azione, l’operazione, l’agire dello Spirito Santo, per mezzo delle quali Esso si fa conoscere, percepire e di cui si ha l’esperienza. Di solito, questo concetto viene usato dal nostro autore nel contesto collegato con la luce e con il comunicarsi di Dio con la persona. Cf. Eth., 1, 6, 94-96; 1, 12, 251-253; 4, 51-55; 5, 1-5; 5, 265-269. Esso viene spesso usato negli Inni: Cf. J. Koder, «Index de mots grecs», 352.Per quanto riguarda gli scritti dei Padri della Chiesa, la dottrina delle energie divine raggiunge il suo apice nella definizione delle due energie o volontà in Cristo, corrispondente alle sue due nature, in contrasto con la dottrina del monotelitismo. Dobbiamo ancora notare, che per il periodo del tardo pensiero bizantino filosofico e teologico, impostato nel quadro della dottrina ortodossa della grazia e della conoscenza, importanza ha la vera distinzione tra l’essenza di Dio e le sue energie. Il rappresentante più noto è Gregorio Palamas. Secondo la dottrina da lui presentata, le tre persone divine necessariamente rimangono nascoste e inaccessibili a un fedele, mentre le energie increate che sono una con l’essenza divina e, di conseguenza, rappresentazioni di esse, trasmettono al fedele la partecipazione alla vita divina. Cf. G. Podskalsky, «Energy»; cf. Ch. Yannaras, «The Distinction between Essence and Energies and its Importance for Theology»; cf. J. Meyendorff, St. Grégoire Palamas et la mystique orthodoxe.
[249] Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 310; cf. Cat., 16, 123-133.
[250] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 86; cf. Hymn., 18, 39-44.
[251] L’ «illuminazione» oppure l’esperienza mistica della luce progredisce in tre fasi secondo l’esperienza di Simeone. 1. Il «rapimento» – la prima esperienza mistica oppure la serie delle prime esperienze sono corte e disorientate (Cat. 1, 70-79). La persona «viene rapita» inaspettatamente e si accorge di ciò soltanto quando «torna». Si passa da uno stato della coscienza coscientemente presente a uno stato mistico della coscienza. Siccome la mente non è ancora abbastanza raffinata (cf. Hymn. 30, 571-574; Hymn. 18, 65-70), la coscienza perde questo stato mistico. Si nota una certa instabilità. Non ha ancora una forza trasformativa. – Qui vogliamo notare un fatto molto tardivo rispetto all’epoca del nostro autore, ma comunque assai interessante. Ciò ci sembra significante nel contesto dell’esperienza della luce inaspettata/aspettata o inattesa/attesa. Nella tradizione bizantina russa, ma anche in Bielorussia e Ucraina, anche presso i cattolici, esiste una devozione all’Icona miracolosa della Madre di Dio nota e molto diffusa, che si chiama «Gioia inattesa». E’ sorta sotto l’influenza della storia scritta nel 1683 da Dimitrio – vescovo di Rostov, dove si racconta della «visione inaspettata e miracolosa» di un peccatore – giovane ladro (Čudo 24), che sperimentò in essa la compunzione e il perdono. Dopo la «visione», il suo cuore fu riempito di gratitudine, pace, immensa gioia e lacrime, che scorrevano dai suoi occhi. Conseguentemente questo episodio lo ha portato alla conversione della vita propria. Cf. http://www.reginamundi.info/icone/gioiainattesa.asp; Dimitrij (Tuptalo), Runo orošennoe Prečistaja i Preblagoslovennaja Deva Marija, ot ejaže Čudotvornogo Černigovskogo Obraza …, 99-100. 2. L’«esperienza della luce» – non è più inaspettata, viene riconosciuta come una luce mistica. La si riconosce quando la luce appare. All’inizio, da una luce indistinta, corta, apparentemente distante, man mano diventa una luce più chiara, progressivamente più lunga e più vicina. Lo stato mistico diventa più stabile, ha la forza trasformante e la mente diventa più differenziata. Il mistico si trova come a casa in due mondi nello stesso tempo, da una parte nel mondo della realtà presente con una certa insoddisfazione sottilmente crescente e dall’altra nel mondo della realtà mistica nel quale è in contatto con la luce divina (Hymn. 18, 104-115; 23, 470-484; 15, 95-109). Questi due fasi sono necessariamente indispensabili per la purificazione della persona, cioè per la crescita dell’umiltà e per la morte dell’egoe aiutano la persona a partecipare alla crocifissione di Cristo. 3. La «perfezione» – è un passaggio dalla morte alla risurrezione e alla restaurazione della vita eterna. E’ lo stato in cui nel monaco si completa il processo della trasformazione mistica e si realizza la sua unione con la luce (Hymn. 18, 95-100). Dalla «morte» dell’umiltà (Cat. 13, 34-51, 106-115) si passa alla vittoria su Satana (Hymn. 54, 126-131). Si raggiunge l’apatheia accompagnata dall’unione con la luce (Hymn. 46, 18-29). Cf. J.R. Price, «Mystical Transformation of Consciousness in Symeon the New Theologian», 11-12.
[252] Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 86; cf. Hymn., 18, 50-54.
[253] Qui vengono enumerati i nomi della luce. Le abbiamo divisi in tre gruppi. Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Inni, 85-86; Hymn., 18, 15-30.
[254] Altri casi simili dove lui descrive la luce mistica che lo avvolge, come sole, stella e perla: cf. Cat., 16, 127-133; Hymn., 42, 85-86.
[255] Abbiamo l’esempio della dinamica del passaggio personale di Simeone che sarebbe il seguente: 1. un totale oscuramento e ottenebramento, segnato dall’estraneità alla luce divina e consapevole ignoranza riguardo a Dio; 2. un rimorso nella coscienza, il timore e il desiderio della remissione dei peccati collegati con uno sforzo di ricerca di una persona che possa aiutare – un pastore; 3. l’incontro con la persona che trasmette una illuminazione intellettuale dello Spirito; 4. il momento dell’allontanamento, quando la contemplazione dello Spirito passa e la persona cade di nuovo nella tenebra dei peccati; 5. la seconda chiamata che avviene ad opera del pastore; 6. l’ubbidienza, la fede, l’umiltà e la sottomissione al pastore; 7. l’evidentissima trasformazione riguardo alla conoscenza e contemplazione di Dio. Nell’ultimo punto avviene la purificazione dell’intelletto effettuata da Dio, dalla luce dello Spirito Santo. Cf. Euch., 1, 237-275.
[256] Simeone il Nuovo Teologo, «Le due “Preghiere di ringraziamento a Dio”», 66-67; cf. Euch., 2, 208-218.
[257] Éth., 7, 442-446.
[258] Cf. Euch., 1, 76; 1, 250-256. Simeone il Nuovo Teologo confessa che proprio per l’intercessione di Simeone il Pio, suo mediatore, difensore e pastore gli è stata trasmessa la grazia della conversione e della visione di Dio. Cf. Cat., 34, 45-50; cf. Euch., 1, 115-139.
[259] Per l’importanza della guida spirituale nella vita di San Simeone: H.J.M. Turner, St. Symeon the New Theologian and spiritual fatherhood. Cf. B. Krivocheine, «The Most Enthusiastic Zealot. St. Symeon the New Theologian as about and spiritual instructor»; cf. J. van Rossum, «Priesthood and Confession in St. Symeon The New Theologian»; K.T. Ware, «The Spiritual Father in St John Climacus and Symeon the New Theologian»; cf. T. Špidlik, «Superiore-padre: l’ideale di San Teodoro Studita»; R. Morris, «Monasteries and their patrons in the tenth and eleventh centuries», 185-231.
[260] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 423-424; cf. Cat., 28, 104-118.
[261] Cf. A. Golitzin, On the Mystical Life: Vol. 3, 87
[262] San Gregorio di Nazianzo precisa nei suoi scritti che la teologia non è «tecnologia», non è un’argomentazione umana, ma nasce da una vita di preghiera, da un dialogo assiduo con il Signore. Cf. Gregorio di Nazianzo, Or. 27-31, 27 e 28. Proprio le sue più celebri omelie, i cinque Discorsi teologici (Or. 27-31) formano un insieme coerente sulle condizioni spirituali della conoscenza di Dio (27-28) e sulla Trinità (29-31) che più di ogni altro gli valsero l’appellativo di «Teologo» in senso letterario e mistico. Cf. J. Gribomont, «Gregorio di Nazianzo», 2463.
[263] Probabilmente è il suo nome laico, che portava ancora prima di diventare monaco. Cf. B. Krivocheine, «Introduction», 18, n. 1.
[264] Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Le Catechesi, 368; cf. Cat., 22, 280-295.
[265] Qui si tratta del suo entrare nel monastero di Stoudios, dove si è sottomesso alla guida del suo padre spirituale. Cf. Vie, 10-21.
[266] Cf. Cat., 22, 317-320.
[267] Cf. Éth., 10, 777-867.